Archivi del mese: marzo 2013

La Jetée

Voto 18/20

Limitare, non equivale a ridurre.
Il limite, come ottimizzazione quantitativa delle risorse, può significare un processo di amplificazione, laddove togliere spazio ad una funzione espressiva si traduce nel potenziamento di un’altra funzione.
L’energia non viene dispersa, si raduna attorno a pochi elementi essenziali.

Eccolo, dunque, il “Limite” di quest’opera:
un manipolo di immagini in bianco e nero e una voce fuoricampo.
Null’altro.
Non solo è il minimo indispensabile, ma è solo e soltanto ciò di cui si ha realmente bisogno.

L’opera nasce dall’accostamento progressivo di fotografie.
Almeno in teoria, questa affermazione non dovrebbe suscitare alcuno stupore, essendo ogni film, infatti, in ultima analisi, l’accostamento progressivo di fotografie.
In realtà, però, mentre l’evento filmico in senso stretto si avvale della tecnica fotografica per generare, a partire dall’immobilità sostanziale, una motilità illusoria, quest’opera in particolare de-lude l’aspettativa filmica, infrange l’illusione, riconosce alla fissità dell’immagine un valore di sussistenza autonoma, ed esalta l’intenzione mnemonica di possessione che la singola immagine incarna.

D’altronde, la prima frase in assoluto (la prima affermazione dell’opera, nell’opera, sull’opera stessa) è significativa non soltanto per lo sviluppo circolare della trama, ma anche per la capacità di descrivere questa peculiarità formale.
“Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine d’infanzia”.
Un’immagine che determina, nello stesso istante, il luogo di origine e il punto di approdo di un percorso inafferrabilmente più ampio.
[Ecco spiegata, fra l’altro, l’eccezionale precisione con la quale il titolo (“La Jetée”, il molo) riveste metaforicamente, sottolineandolo, l’elemento focale di tutta l’opera (luogo d’origine e punto di approdo).]

Dovrebbe trattarsi di un lavoro di fantascienza, realizzato con mezzi particolarmente economici per questo genere, senza alcun tentativo di spettacolarizzazione. Eppure questa constatazione tecnica, si lascia afferrare ed apprezzare, poco a poco, come cifra stilistica, sgretolando la granitica “certezza di genere”. Il pretesto narrativo è senza dubbio fantascientifico, ma estendere questa definizione all’opera nella sua spiazzante interezza, vuol dire costringere a forza l’Oceano in un bicchiere.

Le immagini, nel loro lento-e-intenso migrare, lasciano orme troppo profonde per poterle considerare quale componente accessoria.
L’Immagine (attraverso le immagini) è la prima fondante “definizione di genere”.
L’effetto risultante, generato dal materiale visivo (fluido, pur incastonato nello schermo), è una sorta di eco visiva.
L’occhio è sfiorato, poi afferrato, poi premuto. Uno scoglio inerme, levigato con cura da flussi e riflussi continui, che ne tracciano delicatamente la superficie.

|SF|


Il Sorpasso

“A me Modugno mi piace sempre, questo “Uomo in frac” me fa impazzi’, perché pare ‘na cosa de niente e invece c’è tutto: la solitudine, l’incomunicabilità, poi quell’altra cosa, quella che va di moda oggi… la… l’alienazione, come nei film di Antonioni. Hai visto “L’eclisse”? Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella”…uno spaccato di vita che viaggia nell’immensità dei meandri romani, che racchiude la grandezza del cinema italiano in appena 108 minuti di Leggerezza, Immaginazione, Solitudine, Rassegnazione e Malinconica Dispersione in un mondo che ha cessato di esistere. In altre parole: un Capolavoro.

A 51 anni di distanza, è sorprendente come il peso del tempo sia scivolato via senza fare il ben che minimo rumore, togliendo il disturbo rimanendo nell’anonimato, anzi, arricchendo e completando, attraverso la sua cornice, una pellicola d’altri tempi, Fresca ed Originale, Nuda e Cruda, Veritiera dal primo all’ultimo ciak. Dino Risi incanta, Gassman polverizza lo schermo, come sembrasse un oggetto inutile nell’interazione tra il pubblico ed il film. Sembra davvero di essere a bordo di quella mitica Aurelia B24. Del resto, chiunque di noi lo abbia visto, non può certo negare di essersi immedesimato (almeno per cinque minuti?) in quel Bruno Cortona che ci ha ammaliato fin dal primo istante. La potenza scenografica di Gassman rende ancor più straordinaria la visione registica di Risi, che non perisce sotto i colpi dell’iper talentuoso attore romano, ma al contrario si esalta, in un estasi [ecstasy] filmica a dir poco Imponente [Allucinante]…e citando Leandro Castellani, il film è letteralmente “invaso da un Vittorio Gassman eccessivo, come sempre…“.

Personalmente faccio fatica a considerare Il Sorpasso un esponente della Commedia all’Italiana. Certamente, ne presenta tutti gli ingredienti, ma la sua diversità così come la sua modernità ne danno un taglio decisamente differente e classista: oserei definirla una Commedia Psicologica. La profondità dei rapporti umani intrapresa in questo viaggio è semplicemente incredibile, specialmente se rapportata a ciò che si conosce sulla vita dei personaggi stessi; praticamente nulla. Continui rapporti contrapposti, ossimori tanto caratteriali quanto scenografici vanno a convergere in un unico grande sentiero: quel minuto finale che incanta, che lascia stupefatti ed impietriti di fronte ad un’opera di così alto valore…è una vera e propria consacrazione cinematografica, che impone al mondo intero la grandezza della nostra Arte di fare Cinema, spesso fin troppo dimenticata da tutti, ma soprattutto da Noi Stessi…

Voto: 97%

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Capolavoro assoluto, anche a mezzo secolo di distanza

Una delle migliori interpretazioni di Gassman

Perfetto equilibrio tra dramma e commedia

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Stefano Cherubini


Il Lato Positivo

Qualcosa è cambiato. Qualcosa sembra davvero essere cambiato nella maniera in cui il pubblico percepisce una commedia, o semplicemente il significato semantico del termine…che poi ci sarebbe da aprire un dibattito (o un blog a parte?) sul significato della commedia nel grande schermo. Non basterebbero recensioni, articoli, tesi o dibattiti per chiarire veramente cosa si intenda o cosa ci si aspetti veramente da un’opera che rientri in questo genere. Abbiamo osservato da spettatori impotenti, con grande malinconia,  lo svilimento e l’impoverimento della commedia all’Italiana, diventata oggi nulla più che una chiacchiera da bar o un passatempo per inetti di qualsivoglia genere. Ma se nel panorama italiano la crisi cinematografica può essere dovuta soprattutto alla progressiva diminuzione dell’importanza che si è data al cinema con il passare tempo, a mio avviso del tutto inspiegabile, resta quasi sorprendente il senso di vuoto che ha attraversato Hollywood in questi anni. Pellicole fugaci, scialbe, inutili ed oserei anche offensive (salvo rarissime eccezioni che hanno mantenuto perlomeno una certa dignità) hanno attraversato i nostri schermi per quasi quindici anni, arrivando a farci credere che fosse un genere disimpegnato o che forse, in fin dei conti, lo era sempre stato.

…E poi, improvvisamente ti ritrovi davanti, inaspettatamente, Il Lato Positivo…e ti ritrovi quasi frastornato, perdendo le tue certezze, pensando che forse non è tutto perduto. Comprendi immediatamente che Robert De Niro non è quello che negli ultimi 10 anni ha rovinato la sua carriera con scelte decisamente poco felici e a dir poco drammaticamente ridicole, finendo spesso in “Commedie(?)” che lo rendevano alquanto goffo ed impacciato in maniera quasi imbarazzante. Capisci che la leggerezza e la fluidità di un film non devono necessariamente sfociare in scontatezza e fragilità. Ti rendi conto che anche nella linearità di vite semplici ne può nascere qualcosa di piacevolmente sorprendente a tal punto non solo di strapparti dei grandi sorrisi, ma anche di tirarti fuori emozioni di piacevolezza in un finale scritto fin dall’inizio. La potenza dell’evento è proprio questa: sapere fin dapprincipio come andrà a finire, ma guardarlo con immenso piacere e desiderando [con sorprendente ammirazione (di te stesso?)] che il finale sia proprio quello…e lo si fa gustandosi ogni scena, diretta davvero con un senso del ritmo superbo.

Una nota di merito va decisamente alla splendida colonna sonora di Danny Elfman, che aggiunge una ricchezza davvero NON banale all’opera…in tutti i casi il film va visto. Non resterà senz’altro negli archivi dei capolavori assoluti del cinema americano, ma rimane pur sempre uno splendido e fulgido esempio della potenza espressiva di una piacevole commedia sul grande schermo. Che dire: l’ultima volta che ho provato simili emozioni dopo aver visto una commedia hollywodiana era stato nel lontano 1997, quando Jack Nicholson ed Helen Hunt, diretti da James L.Brooks, ci incantarono nello splendido Qualcosa è Cambiato…speriamo solamente che non debbano passare altri sedici e lunghi anni.

Voto: 77%

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Commedia frizzante, come non se ne vedevano da tempo

Ottimo cast

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Siamo ancora lontani dai fasti del passato

Stefano Cherubini


Il Palloncino Rosso

Voto 17/20

Nessun giro di parole.
I passi di un bambino sulla strada (Un cane..lo accarezza). Scende lungo la scalinata di un vicolo.
Qui, si ferma, guarda in alto, si arrampica su un lampione e raggiunge agilmente un palloncino rosso, annodato attorno all’estremità del palo. Scioglie il nodo, afferra il filo tra i denti e lo porta con sé.
Non una parola. Non un gesto di troppo.
La telecamera accompagna dolcemente questo Incontro, presente e attenta, ma defilata (pur nella sua centralità prospettica). L’occhio abdica alle Immagini, senza pretesa di narrare, senza didascalie. Suggestiona senza Suggerire.
È la testimonianza microscopica di un Evento irripetibile, lungo un respiro.
Già questo un dono.

Da questo punto in poi, il bambino inizia a farsi Bambino, quale Archetipo impeccabile della Fanciullezza, tanto è essenziale la maniera in cui la sua figura e il suo comportamento ritraggono questa forma esistenziale.
Il palloncino rosso, invece, persistendo nella sua condizione oggettuale, pur anelando continuamente alla “Maiuscola”, all’Archetipo, non può elevarsi oltre il grado di transitorietà. DEVE essere (e apparire) occasionale, contingente, fragile. Eppure, essere continuamente legato alla centralità del bambino, lo espone a questa centralità caratteriale.

Brevi/Lunghe sequenze della corsa sulla strada e sul marciapiede (con il palloncino..).
L’arrivo a scuola (con il palloncino..).
L’uscita da scuola (con il palloncino..).
Passare da ombrello a ombrello, accompagnato da un passante sempre nuovo (con il palloncino, anche lui protetto dalla pioggia).
Passaggi purissimi di una condivisione muta, che non necessita d’altro che non sia Limpida Presenza.

È trascorso circa un terzo di quest’opera, quando dai lati opposti della stessa finestra (entrambi schiacciati contro il vetro alla ricerca di un contatto) il Bambino e il palloncino rosso scoprono la possibilità di una nuova distanza
(anche a scuola si erano divisi, ma il palloncino era stato affidato a un inserviente della scuola, nella scuola).
Solo a questo punto, reso (resosi!) consapevole di questa possibilità, il palloncino inizia a mostrarsi in tutta la sua spontaneità animica.
Come se l’intensità degli istanti condivisi fino a quel momento comportasse la necessità di negare, anche sul piano fisico, una superficialità non più “dovuta”, inautentica.
Il palloncino non riesce e non può più fingere una persistente verosimiglianza.
Nega la banalità, non la leggerezza, a vantaggio di un’espansione comunicativa che lo vivifica. Riconosce, oltre il sottile strato rosso, nell’aria, un alito. Contagiato dalla Fanciulezza, diviene Fanciullo. Non un’appendice, o un corollario di quell’Archetipo, ma una sua espressione ulteriore ancora più essenziale di quella incarnata nel bambino. Inoltre, traducendo le potenzialità simbolizzanti della Fanciulleza rispetto alla Realtà oggettuale, Diviene Archetipo Paradossale dell’Oggetto-Qualunque-De-Qualunquizzato.

In meno di 30 minuti complessivi, trova dimora Ogni Sfumatura Drammatica, Ogni Evento Relazionale, dall’Incontro fortuito alla Distanza lacerante. Un percorso completo, raffinato nella sua capacità di contenere e gestire e riprodurre dinamiche universali nella più piccola porzione dimensionale concepibile.

Un’opera piena di Retorica..
..nella migliore accezione possibile.

Inno alla Limpidezza.

|SF|


C’eravamo tanto amati

Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici?“. Di quel tiepido torpore in cui si resta avvolti dopo averlo visto, C’eravamo Tanto Amati sembra farne tesoro fino in fondo, fino all’ultimo secondo, senza speranze. “Finì la guerra, scoppiò il dopoguerra“…si comincia da qui, senza alcuna illusione, tre amici che si allontanano alla fine del conflitto mondiale. Così diversi, così vicini, così affabilmente innamorati della loro vita. Uno spaccato storico sull’Italia, che irrompe nelle sale nel 1974.

Ettore Scola infiocchetta un omaggio a Vittorio De Sica e alla Vera ed Unica Commedia all’Italiana. La delinea con intrecci paradossali, pittoreschi, con una freschezza artistica che mostra gli anni d’oro del Cinema Italiano. Un Gassman superbo, nel ruolo di Gianni, è il personaggio portante delle intere vicende, causa e conseguenza, male e bene, bianco e nero, dolce e amaro di una storia stridente e traumatica, messa in parallelo con gli avvenimenti storici del periodo.

Negli onesti c’è quella purezza che se gli capita l’occasione diventano più mascalzoni dei mascalzoni veri“…e se da un lato l’estrema negatività del personaggio di Gassman non lascia scampo a vie di fuga o tentativi di salvezza mistica di qualsivoglia tipo, dall’altro la semplicità e l’onestà intellettuale degli altri due protagonisti, Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores), maschera ed in qualche modo completa il fallito tentativo di redenzione morale che accompagna l’evento filmico nel pieno della sua completezza.

Purtroppo, il film risente leggermente del peso degli anni, al contrario di altri splendidi capolavori nati nello stesso periodo, se non addirittura prima. La scelta di alcune tecniche narrative vicine a quelle teatrali rendono il tutto molto più affascinante ed originale, ma un po’ meno fluido e convincente di ciò che ci si aspetta da una realtà cinematografica. Parliamo comunque di piccoli dettagli che non ledono minimamente la splendida armonia che si respira attorno al capolavoro di Scola. Gli anni scivolano via in maniera talmente leggera all’interno della pellicola che l’unica opportunità di coglierli sta nel passaggio geniale dal bianco e nero al colore, che fa percepire in maniera decisa l’evoluzione storica ed emozionale di un periodo Straordinariamente Intenso, da qualsiasi punto di vista lo si voglia vedere.

Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo“…uno degli ultimi grandi omaggi al Cinema Italiano, pieno di Vita e Speranza, di Talento e Maestria. Semmai un giorno dovessimo scegliere un periodo storico dove il nostro paese ha brillato dal punto di vista artistico, sarei davvero molto indeciso; ma una cosa è certa: non andrei oltre gli anni ’70.

Voto: 87%

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Il cinema italiano in una delle sue massima espressioni

Storia estremamente solida e commovente

Vittorio Gassman superbo…

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…ma oscura perfino Nino Manfredi

Stefani Sandrelli probabilmente ancora non aveva imparato a recitare

Si porta male il peso degli anni

Stefano Cherubini


Argo

SC: …e da quando la mediocrità è diventata vincente? Da quando dei film “normalissimi” suscitano così tanto clamore tra la critica? Da quando una sceneggiatura lineare e scontata come quella di Argo fa gridare al capolavoro? Ero entrato in quella sala con tante speranze e ne sono uscito con tante domande. Probabilmente, se non avessi avuto tutta questa attesa spasmodica creata del fenomeno attorno al film non ne sarei rimasto così deluso, ma quel che conta è che Argo resta, in tutti i casi, un film discreto e nulla più.

SF: Ho notato, con altrettanto (se non maggiore) stupore, che l’operazione commerciale di riabilitazione registica di Ben Affleck è stata così ampia e sfavillante da oscurare completamente l’ennesima prova attoriale indecorosa, inarrivabilmente insipida. Avrà avuto la sua parte, in questa operazione di intorpidimento critico, il ruolo giocato dall’eccezionale abbondanza di “peli”, sopra, sotto e tutt’intorno il faccione de-espressivizzato di questo ARTISTA-tuttofare.

SC:…e se provassimo a fare un’analisi obiettiva, avulsa da tutto ciò che ha rappresentato il film nei mesi successivi alla sua proiezione? Come se non fossimo a conoscenza del forte successo commerciale e di critica che Ben Affleck ha ottenuto?
Ebbene, oserei definirlo un film normale, una trama rapida che cattura ma che non convince fino in fondo; alcuni momenti critici ben riusciti, altri decisamente troppo classici (per non dire scontati). Sa tutto di già visto; un film che non osa, non va mai oltre le aspettative. Dall’inizio alla fine ci propone scenari ripetitivi, cliché quasi nauseanti che abbiamo visto già troppe volte…il tutto condito da un patriottismo che va ben oltre ciò che siamo abituati a vedere su un “Pearl Harbor” di turno.

SF: Un film di due ore totalmente proiettato su un unico climax “emotivo” e narrativo: la scena dell’abbandono dell’aeroporto. Il resto del film è un ridondante contorno di questo episodio, che nella sua centralità fa risaltare ancora più terribilmente le dinamiche banalissime (e riciclatissime) su cui è fondato.
[Il capo della sicurezza che sembra aver capito tutto..la telefonata di salvezza che viene ricevuta all’ultimo squillo..la rincorsa ai fuggitivi sulla pista dell’aereo in partenza che fallisce per un soffio.]
La scena conclusiva, poi, è un concentrato maleodorante di cliché idealistici. Quel che è peggio è che non si tenta neppure di malcelare quel mucchio stantìo di valori, non si cerca un impegno dissimulatorio nel fingere, anche banalmente, un “trapelare” di intenzioni.
Al contrario, è un prodigarsi sfacciato (un gesticolare vistoso!).
Il Trionfo anti-valoriale, in questo senso, si racchiude nel ritorno a casa dell’eroe.
A noi tutti era sembrato un agente segreto, all’interno di un’operazione segretissima.
Eppure pare che le sue gesta abbiano avuto notevole risonanza mediatica, a giudicare dall’abbraccio caloroso e dagli sguardi comprensivi coi quali lo accoglie la sua quasi-EX-moglie. E che dire di quella bandiera americana, ben piantata in giardino, al loro fianco, che sventola in tutta la sua elegante virilità autoerotica..(!?)

SC: Bene. Credo che non servano altre parole per descrivere la delusione che ci lascia questo film. Personalmente credo che Affleck sia un buon regista, nulla di più. Ha toccato il suo apice con l’oscar per la sceneggiatura a Will Hunting (assieme al suo grande amico Matt Damon) e magari, in futuro, potrà deliziarci con qualche altro coniglio dal cilindro; ma di una cosa sono sicuro: non è stato questo il caso.

Voto: 63%

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E’ sempre piacevole vedere Bryan Cranston

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Sceneggiatura non solo lineare, ma anche banale e imperfetta

Prova d’attore decisamente insufficiente per Ben Affleck

Cliché già visti miliardi di volte

Stefano Cherubini

Simone Ferrini


Microrecensioni & Curiosità

Inauguriamo oggi una nuova piccola rubrica, che ci consente di riempire e completare i cosiddetti “spazi vuoti”. Tra una recensione e l’altra proporremo infatti delle Microrecensioni, ovvero recensioni di poche righe su film di qualsiasi genere, che siano film cult o flop epocali; oppure il commento di particolari scene di un certo film; ma anche delle semplici curiosità (su attori, registi, film o tutto ciò che possa essere legato all’ambiente cinematografico). All’interno delle microrecensioni potranno essere anche estrapolate delle scene particolari, per bellezza o notorietà, sulle quali verranno espressi dei commenti relativi solo e soltanto a quella particolare sequenza filmica. Per motivi di rapidità, come richiesto da una microrecensione o da una curiosità, queste si appoggeranno solo ed esclusivamente allo spazio facebook, secondo noi più consono a brevi commenti, senza andare ad intaccare l’organicità e la compattezza strutturale del blog.


Stalker

 

Voto 19/20

Anche scrivere (..Anche leggere..) sarà un Viaggio.
Attraversare il film, sovrapponendo ogni passo a quello dei personaggi, traducendo, nella dimensione linguistica, gli eventi in Evento.
Perché volti, gesti, voci (nonché l’assenza contestuale di voci, gesti e volti), all’interno di quest’opera, sanno delineare, prima e al di là della scrittura stessa, un percorso grammaticale, con un suo lessico percettivo, una sua precisa sintassi esperienziale.

Il lessico?
Uno scrittore, un professore, una guida, uno spazio rurale, una stanza.
Meglio: Lo Scrittore, Il Professore, Lo Stalker, La Zona, LA Stanza.
Perché parliamo di Simboli, Allegorie, Strumenti concettuali, prima che di individui.
Diventa chiaro, nel corso dell’opera, quanto sia irrilevante l’aspetto fisico specifico di questi personaggi, la loro particolare storia, le loro scelte contingenti..neppure la narrazione, quale sviluppo di un Accadimento.
Accadimento (fra l’altro) del tutto “de-complessificabile” nella vicenda irrilevante di due uomini che chiedono a un terzo uomo di fargli da guida per attraversare una campagna deserta.
Apparentemente.

Non è chiaro, all’inizio, perché per raggiungere questo luogo sia necessario aggirare i numerosi posti di blocco delle forze armate.
Non è chiaro, allo spettatore, il passaggio sbalorditivo da immagini “seppiate” a immagini a colori, effettuato durante il lungo approdo dei protagonisti nella Zona, a bordo di un carrello mobile su un binario morto [più di 3 minuti (..esattamente, 212 secondi..) in cui la telecamera indugia sul profilo e sulla nuca dei tre uomini, come a incastonare la percezione, radicata e persistente, di un’inautenticità].

Una volta giunti nella Zona, lo Stalker si distanzia dai due uomini, “va all’appuntamento con la Zona”. È a casa, corre ad abbracciare ciò che gli è caro. Il Professore, intanto, spiega allo Scrittore cosa sia uno “Stalker”..e prova a spiegare cosa sia la Zona.
Riferisce, soprattuto, le sue informazioni circa l’apparente origine del Mistero di quel Luogo, attribuibile alla caduta di un meteorite, che rase al suolo un intero villaggio.
Quel meteorite non fu mai ritrovato. Così come le persone che si avventurarono nell’area del presunto impatto subito dopo l’evento.
Fu posizionato allora del filo spinato attorno ad un’ampia porzione di territorio, nonché un cordone di sicurezza atto a presidiarlo per tutta la giornata..affinché le persone fossero protette dalla Zona e (soprattutto?) affinché la Zona fosse protetta dalle persone.
Iniziavano a circolare voci circa l’esistenza di una Stanza, all’interno di quel luogo, nella quale “i desideri più intimi e segreti” di un uomo potevano ottenere realizzazione.

(“Che cosa poteva essere se non un meteorite?”
“Un messaggio per l’umanità..? O un regalo..!”)

Lo Stalker resterà una figura misteriosa, al pari della Zona, per quasi tutta la durata del film.
Non sono spiegate le ragioni che gli permettono di essere tale, dunque ciò che gli consente di percepire la Zona tanto nelle sue espressioni empatiche che nelle sue potenzialità distruttive.
Osservando le modalità di attraversamento del luogo da parte di questa guida, si ha come l’impressione che i personaggi stiano camminando lungo il dorso di una gigantesca creatura, pericolosamente affascinante, con la quale il solo Stalker ha un rapporto di “riverente familiarità”.
Si procede lungo percorsi apparentemente irrazionali di svolte rapide e improvvise, alternate a lunghe pause, nonostante il punto di arrivo (la Stanza) si trovi a poche centinaia di metri dal loro punto di partenza.
Si cammina ordinatamente in fila, ricalcando di volta in volta le orme dell’altro. Ci si affida a intuizioni circostanziali, al lancio di dadi (legati a nastrini bianchi), alla direzione e all’intensità del vento.
“Per la Zona, la strada diritta non è la più corta..” sentenzia lo Stalker.
“la Zona è forse un sistema molto complesso di trabocchetti..e sono tutti mortali..non so cosa succede qui in assenza dell’uomo..ma non appena arriva qualcuno, tutto si comincia a muovere..le vecchie trappole scompaiono e ne appaiono di nuove..posti prima sicuri, divengono impraticabili..e il cammino si fa ora semplice e facile ora intricato fino all’inverosimile..è la Zona..forse a certi potrà sembrare capricciosa..ma in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata Noi, come il nostro stato d’animo..non vi nascondo che ci sono stati casi in cui la gente è dovuta tornare indietro a mani vuote..alcuni sono anche morti, proprio sulla porta della Stanza..ma quello che succede non dipende dalla Zona..dipende da noi..”
Questo rapporto tra Uomo e Luogo si stringe spesso a tal punto, che è del tutto lecito porsi domande circa l’effettiva realtà dell’esperienza, pur non riuscendo a stabilire con certezza se la Zona sia una proiezione immaginifica dello Stalker, o se lo Stalker possa rappresentare un’emanazione comunicativa della Zona.
La narrazione sembrerebbe suggerire un’appartenenza reciproca, per una sorta di “empatia-presenziale” che, traducendo ogni movimento (nonché ogni intenzione di movimento) in gesto Comunicativo, permette all’Uomo di sentirsi propriamente sé stesso soltanto nella Zona (appena giunto, dopo aver aspramente litigato con sua moglie, abbraccia le piante, gettandosi sul terreno) e alla Zona di sentirsi pienamente significativa solo attraverso la mediazione di questa specifica individualità umana.

Dopo un’ora di film, quando sembra di aver già compiuto gran parte del percorso di sviluppo, Tarkovsky inizia a graziarci con una serie di doni fotografici e linguistici.
Principiati da un breve monologo dello Stalker, al di sopra di un pozzo, la cui superficie, infranta da una pietra, si ricompone poco a poco. “Che si avverino i loro desideri, che possano crederci, e che possano ridere delle loro passioni. Infatti ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale ma solo attrito tra l’animo e il mondo esterno. E soprattutto che possano credere in se stessi, e che diventino indifesi come bambini, perché la debolezza è potenza e la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido, così come l’albero: mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza..ciò che si è irrigidito non vincerà..”
Durante questa “fase divagatoria”, colma di dialoghi, attriti verbali, scorci naturali, vi sono anche dei brevi intermezzi (mnemonici? onirici?) in cui viene recuperato il “seppia”..come se perfino l’interiorizzazione percettiva degli eventi fosse un allontamento decisivo (una fuga!) dalla Presenza concreta e arazionale della Zona.

L’atmosfera della Zona e l’atteggiamento dei personaggi si sviluppa in un crescendo spiazzante. Un tunnel apparentemente innocuo, definito “tritacarne”. Un’ampia stanza piena di dune di sabbia, con delle spesse colonne ai lati, e un pozzo al centro. Una piccola abitazione in rovina, che sembra mutuata da uno scenario post-bellico. Un telefono inspiegabilmente funzionante, che squilla.
E il disagio dei tre uomini che si acutizza.
Le ambizioni deluse dello Scrittore che affiorano drammaticamente.
Il progetto del Professore di distruggere la Zona che si rivela.
Il dolore dello Stalker, impotente, dinanzi alla sofferenza, all’angoscia e alla distruttività contagiosa che quegli uomini Comunicano.

(“Perché lei mi vuole distruggere la Zona? È la sua speranza che vuole distruggere? Non è restato nient’altro alla gente su questa Terra, questo è l’unico posto dove si può venire quando non c’è niente in cui sperare.
Siete venuti anche voi! Perché volete distruggere la fede!?”
“Zitto, sta zitto! Ormai ho imparato a conoscerti bene, te ne freghi tu della gente, tu guadagni soldi sfruttando la nostra angoscia, sì la nostra angoscia..e non è neanche una questione di soldi. È perché qui tu te la godi, sei signore a padrone. Tu, verme pidocchioso, decidi chi deve vivere e chi deve morire. Sceglie! Decide! finalmente sono riuscito a capire il motivo per cui voi Stalker non entrate mai nella Stanza. Ma perché ? Qui vi ubriacate di potere, di segreti, di autorità..Quali altri desideri ci possono essere!?”
“Non è vero, lei si sbaglia..uno Stalker non può entrare nella Stanza. Uno Stalker per se stesso non può chiedere niente. Ricordatevi del porcospino. Sì, sono un verme, non ho combinato niente, e nemmeno qui posso fare niente. Perfino a mia moglie non sono riuscito a dare niente. Non ho amici e nemmeno posso averne. Ma non toglietemi quello che è mio. Mi hanno già tolto tutto là, dietro a quel filo spinato. Tutto quello che ho è qui, qui nella Zona, la mia felicità, la mia libertà, la mia dignità., tutto qui. Io porto qui solo quelli come me, infelici, disperati, che non hanno più niente in cui sperare..e io posso capire, posso aiutarli. Nessuno può farlo, ma io, il verme, sì che posso. Ecco è tutto qui quello che ho, niente altro e non voglio, non desidero niente altro..”)

Incantevole, nella sua cristallina caoticità, il momento conclusivo di questo confronto fra i tre uomini.
Immobili. In silenzio.
Seduti in terra, proprio davanti il punto di accesso alla Stanza.
Implosioni parallele, INespresse.
Una pioggia temporanea, invade l’edificio.
Il Professore lascia scivolare la bomba, INesplosa.

Poi, tutto viene catapultato di nuovo nella quotidianeità dell’esistenza al di fuori della Zona.
Solo Qui, Solo Ora (..lontano dal Suo universo ritualistico..strappato al “grembo” della Zona..) nasce il dolore dello Stalker.
Qui-ed-Ora, quell’individuo inafferrabile, ci svela la spontaneità limpida di quel Mistero. A letto, sofferente, accudito dalla moglie, realizza la totale assenza di speranza che pervade l’uomo.
La Stanza non ha senso, la Stanza non serve, se nessuno ha più fede.
Ed è proprio la donna, personaggio marginale fino a quel momento, che, a questo punto, interrompe l’Evento filmico, guarda verso la telecamera, mentre si accende una sigaretta, e (con questo gesto diretto di introduzione ad un linguaggio meta-filmico) riabilita, oltre al marito, lo sviluppo intero delle vicende dell’opera, le potenzialità dell’umanità intera, e l’intero sistema valoriale, manifesto e latente, racchiuso nel vissuto umano.
Espressione linguistica di un’energia volitiva inquieta, che si oggettiva, senza ulteriori didascalie, nelle suggestioni visive degli ultimi (inattesi) fotogrammi.

|SF|


P.T. Anderson: i primi 15 anni da Maestro

Che piaccia o no, Paul Thomas Anderson è diventato ormai uno dei più grandi registi contemporanei. Nel momento in cui qualcuno arriva a concepire una critica così decisa, feroce ed imponente su una tua opera (che siano elogi o commenti denigranti), è evidente che tu abbia lasciato un segno profondo nella storia del cinema, ancor prima di terminare la tua carriera. Così come successe a Kubrick, mai onorato da una statuetta dorata, e a Scorsese, che ha ricevuto tale consacrazione alla “tenera” età di 65 anni, dopo essere stato sbeffeggiato nelle due decadi precedenti con premi dispensati a destra e a manca trascurando i suoi straordinari film.

Non ha imparato il cinema nelle scuole, non lo ha studiato sui libri, ma lo ha semplicemente fatto suo guardando migliaia e migliaia di film che ne hanno scolpito e delineato i tratti caratteristici: pochissimi tagli e lunghi piani sequenza caratterizzano uno stile quasi d’altri tempi, un cinema mai coinvolto in una standardizzazione commerciale.

Quindici anni di carriera hanno portato alla luce ben sei perle d’autore, dalla prima all’ultima. I film che sono stati inseriti all’interno della rubrica sono quelli che, a mio avviso, riescono ad inquadrare perfettamente tutte le peculiarità di Anderson; ma i restanti sono puro piacere. Il vecchio Sidney [Philip Baker Hall], l’Ubriaco d’Amore Adam Sandler e lo straordinario Petroliere di Lewis (a mio avviso il miglior film assieme a “The Master”) meritano molto più che una visione superficiale. Completano e arricchiscono la sua filmografia in maniera del tutto variegata.

Aggiungere altre parole sarebbe superfluo…non mi resta che chiudere questa rubrica sottolineando l’immenso piacere provato nel recensire un regista di questa portata.

Stefano Cherubini