Macrocosmo e microcosmo. Su questa alternanza spaziale si giostra la vicenda western raccontata dal grande John Ford.
Il genere in questione solitamente non prende in considerazione l’approfondimento psicologico dei personaggi, appunto perché il cinema western è un cinema “di genere” in senso ampio e tale tipologia di film, soprattutto in età classica, non ritiene importanti tali “motivi liberi” (ovvero quei motivi che possono essere tolti senza che la narrazione ne risenta).
Il cinema western ha bisogno di una narrazione movimentata, mascolina, violenta e brutale con poco spazio all’introspettività. Anzi, oserei dire quasi nullo. Ford si attiene al genere e alle sue regole canoniche (essendo probabilmente il più grande regista di western della storia del cinema) ma c’è dell’altro: la sua formazione teatrale e cattolica (la leggenda narra che usasse realizzare i propri capolavori con in una mano la Bibbia e nell’altra Shakespeare) lo hanno trasformato in un autore di Western con la W maiuscola.
Uno dei topoi del genere è il deserto, la grande pianura arida e selvaggia dove l’eroe si confronta con la brutalità, il fuorilegge, il villain del momento: ma è negli spazi al chiuso, nell’intimità di una diligenza (la Stagecoach del titolo originale) che si palesa la profondità intrinseca del testo filmico, così come nelle varie stazioni dove i viaggiatori sostano prima di giungere ognuno alla propria meta.
E’ nella diligenza che vengono fuori i contrasti sociali, le divergenze, i caratteri ed è nella diligenza che hanno origine le utopistiche coppie di innamorati che si creeranno (non completamente) alla fine del film.
Soprattutto quella composta dal bandito Ringo interpretato da John Wayne (attore emblema e feticcio della sconfinata filmografia fordiana) e dalla prostituta: un amore reietto di due individui rifiutati dalla società ma che saranno destinati alla felicità.
Dunque il titolo originale mette in risalto l’importanza sociale dell’angusto spazio delle diligenza: mi ha fatto spesso pensare alla stanza del confessionale di quel depravante programma televisivo che è il Grande fratello, dove le premesse erano perlomeno interessanti o pseudo-intellettuali (il 1984 orwelliano). I personaggi si confessano all’interno della carrozza, senza mai guardare direttamente in macchina (questa usanza interpellatrice sarebbe poi arrivata con il cinema moderno ed enfatizza nel contemporaneo), ma sono spesso ripresi frontalmente ad indicare il carattere confessionale del mezzo di trasporto.
Inoltre, la diligenza sembra passare continuamente sulle stesse zone desertificate, ed anche le stazioni in cui i nostri protagonisti si rifocillano sono molto simili tra di loro: sembra che la narrazione voglia dare il tempo necessario (e, se occorre, infinito) a tutti i conflitti di essere risolti prima di giungere alla battaglia decisiva: le Ombre rosse del titolo italiano bisogna affrontarle con l’unione che fa la forza, altrimenti lo scontro non può avere un esito positivo.
Tornando alla caratterizzazione dei personaggi, tutti subiscono lo stesso approfondimento introspettivo ed ad personam: sembra quasi che oltre alle letture solite sopracitate, Ford abbia deciso di amalgamare il tutto con una scrittura cinematografica che si rifà alla letteratura di Charles Dickens.
Siamo di fronte ad uno dei primi grandi western/road movie crepuscolari.
Voto: 95%
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Regia impeccabile e fotografia espressionista.
Approfondimento psicologico di ogni singolo personaggio.
La straordinaria sequenza dell’assalto alla diligenza.
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Ci sono un paio di scavalcamenti di campo inusuali, e forse appunto forzati per l’epoca.
Non è tra i film di Ford che amo di più (si, non è un difetto ma una considerazione personale, ma qualcosa andava pur scritto!).
>Stefano Tibaldi<