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Ombre rosse

Macrocosmo e microcosmo. Su questa alternanza spaziale si giostra la vicenda western raccontata dal grande John Ford.

Il genere in questione solitamente non prende in considerazione l’approfondimento psicologico dei personaggi, appunto perché il cinema western è un cinema “di genere” in senso ampio e tale tipologia di film, soprattutto in età classica, non ritiene importanti tali “motivi liberi” (ovvero quei motivi che possono essere tolti senza che la narrazione ne risenta).

Il cinema western ha bisogno di una narrazione movimentata, mascolina, violenta e brutale con poco spazio all’introspettività. Anzi, oserei dire quasi nullo. Ford si attiene al genere e alle sue regole canoniche (essendo probabilmente il più grande regista di western della storia del cinema) ma c’è dell’altro: la sua formazione teatrale e cattolica (la leggenda narra che usasse realizzare i propri capolavori con in una mano la Bibbia e nell’altra Shakespeare) lo hanno trasformato in un autore di Western con la W maiuscola.

Uno dei topoi del genere è il deserto, la grande pianura arida e selvaggia dove l’eroe si confronta con la brutalità, il fuorilegge, il villain del momento: ma è negli spazi al chiuso, nell’intimità di una diligenza (la Stagecoach del titolo originale) che si palesa la profondità intrinseca del testo filmico, così come nelle varie stazioni dove i viaggiatori sostano prima di giungere ognuno alla propria meta.

E’ nella diligenza che vengono fuori i contrasti sociali, le divergenze, i caratteri ed è nella diligenza che hanno origine le utopistiche coppie di innamorati che si creeranno (non completamente) alla fine del film.

Soprattutto quella composta dal bandito Ringo interpretato da John Wayne (attore emblema e feticcio della sconfinata filmografia fordiana) e dalla prostituta: un amore reietto di due individui rifiutati dalla società ma che saranno destinati alla felicità.

Dunque il titolo originale mette in risalto l’importanza sociale dell’angusto spazio delle diligenza: mi ha fatto spesso pensare alla stanza del confessionale di quel depravante programma televisivo che è il Grande fratello, dove le premesse erano perlomeno interessanti o pseudo-intellettuali (il 1984 orwelliano). I personaggi si confessano all’interno della carrozza, senza mai guardare direttamente in macchina (questa usanza interpellatrice sarebbe poi arrivata con il cinema moderno ed enfatizza nel contemporaneo), ma sono spesso ripresi frontalmente ad indicare il carattere confessionale del mezzo di trasporto.

Inoltre, la diligenza sembra passare continuamente sulle stesse zone desertificate, ed anche le stazioni in cui i nostri protagonisti si rifocillano sono molto simili tra di loro: sembra che la narrazione voglia dare il tempo necessario (e, se occorre, infinito) a tutti i conflitti di essere risolti prima di giungere alla battaglia decisiva: le Ombre rosse del titolo italiano bisogna affrontarle con l’unione che fa la forza, altrimenti lo scontro non può avere un esito positivo.

Tornando alla caratterizzazione dei personaggi, tutti subiscono lo stesso approfondimento introspettivo ed ad personam: sembra quasi che oltre alle letture solite sopracitate, Ford abbia deciso di amalgamare il tutto con una scrittura cinematografica che si rifà alla letteratura di Charles Dickens.

Siamo di fronte ad uno dei primi grandi western/road movie crepuscolari.

Voto: 95%

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Regia impeccabile e fotografia espressionista.

Approfondimento psicologico di ogni singolo personaggio.

La straordinaria sequenza dell’assalto alla diligenza.

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Ci sono un paio di scavalcamenti di campo inusuali, e forse appunto forzati per l’epoca.

Non è tra i film di Ford che amo di più (si, non è un difetto ma una considerazione personale, ma qualcosa andava pur scritto!).

>Stefano Tibaldi<


A Single Man

«Negli ultimi otto mesi svegliarsi è stata una sofferenza. La consapevolezza di essere ancora qui lentamente si materializza. Il risveglio non mi è mai piaciuto. Non sono mai saltato dal letto per sorridere alla giornata come faceva Jim, a volte volevo prenderlo a pugni al mattino, lui era così felice. Gli dicevo che solo gli stolti sorridono al giorno, che solo gli stolti sfuggono alla semplice verità che ora non è semplicemente ora, è un freddo promemoria, un giorno più di ieri, un anno più dell’anno scorso. E che prima o poi Lei arriverà. Lui rideva di me e mi dava un bacio sulla guancia. Ci metto tempo la mattina a diventare George, tempo per adeguarmi a quello che ci si aspetta da George e a come deve comportarsi. Una volta vestito, e data un’ultima lucidatura a colui che ormai è il debolmente rigido ma perfetto George, so quale parte interpretare. Dallo specchio mi fissa di rimando non tanto un volto quanto l’espressione di una difficoltà.»

E non c’è altro da comprendere.
Il film nasce e si presenta nudo, sintetizzando nell’istante di questa epigrafe l’intera portata concettuale dell’opera.
L’obiettivo è quello di evitare distrazioni, ma senza semplificare.
Piuttosto, è un modo per facilitare le operazioni dello sguardo, gettato in una quantità sterminata di immagini, suoni, parole che soltanto secondariamente veicolano quei significati di partenza.
L’obiettivo primario è lasciarci assistere a un dilagare ambivalente di espressività.
Un golfo emotivo che sostiene l’intera ampiezza del film, per ricongiungere i due Momenti diversamenti drammatici dell’Incipit e dell’Excipit.

«Nella vita, ho avuto momenti di assoluta chiarezza. Quando per pochi, brevi secondi, il silenzio soffoca il rumore. E provo un’emozione, invece di pensare. E le cose sembrano così nitide. E il mondo sembra così nuovo. È come se tutto fosse appena iniziato. Non riesco a far durare quei momenti. Mi ci aggrappo ma, come tutto, svaniscono. Ho vissuto la vita per quei momenti. Mi riportano al presente. E mi rendo conto che tutto è esattamente come deve essere.»

Narrativamente, in questa sola lunga giornata accade troppo poco per poter contenere l’enorme mole di pulsioni che questa Vita (e questo Attore) riesce a esprimere.
Eppure, all’interno di questa sola lunga giornata, ogni elemento riesce a muoversi convincentemente nelle due direzioni che conducono il protagonista sia dalla fine verso l’inizio che dall’inizio verso la fine.
E noi con lui.
Confusi e Illuminati allo stesso tempo.

Voto: 85%

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-Colin Firth
-Colonna sonora [..estremamente calzante..sintesi completa di ogni stato d’animo..]

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-Julianne Moore
-Colonna sonora [..deve molto (forse troppo!) al Clint Mansell di The Fountain..]

|SF|


Velluto blu

Il primo vero successo commerciale di David Lynch è una geniale reinvenzione del cinema noir.

E’ una rivisitazione che parte da ciò che nel noir era totalmente assente: il colore. Un colore saturo, potente che si palesa già dalla prima inquadratura: un velluto blu svolazzante, quasi un sipario che ci addentra in un mondo di perdizione e morte. Poi abbiamo l’incipit: uno dei più inquietanti e disturbanti degli ultimi 30 anni di cinema (e non solo).

L’apparente vita tranquilla della cittadina americana è scossa da qualcosa di oscuro, che vive nei bassifondi e che presto imprigionerà il protagonista e noi con lui (palese è il lento zoom nell’erba che pian piano scopre la lotta disgustosa di alcuni scarafaggi). Un mondo nascosto fortemente gotico, ambiguo, pauroso dove la luce sembra aver perso qualsiasi forma di manifestazione. Come scriverà la studiosa Laura Mulvey, siamo di fronte ad un testo che raffigura il complesso di Edipo, il gotico ed il perturbante nella sua accezione freudiana (questa parola ha un significato molto sfaccettato e complesso).

Io vorrei soffermarmi solo sul genere, o meglio, i generi che il film di Lynch mette in campo: il gotico ed il noir.

Le manifestazioni del gotico (inteso proprio come il genere letterario nato in Inghilterra) sono presenti ogni qual volta il nostro Jeffery si addentra nel palazzo dove vive la bella cantante in pericolo: scale buie, angoli minacciosi, un cattivo dai tratti demoniaci e perversi ( il Frank Boot interpretato da uno straordinario Dennis Hopper è uno dei villain più riusciti di sempre). Senza dimenticare che la bionda ed innocente Sandy (interpretata da Laura Dern) è la principessa che alla fine l’eroe sposerà. Ovviamente dopo aver sconfitto il mostro.

Del noir tutto è trasfigurato per trasformare il film in un capolavoro neo-noir. Abbiamo la femme fatale interpretata da una sensuale e pericolosa Isabella Rossellini, che trascina l’ingenuo Jeffrey nel mondo criminale e pauroso di Frank Booth. Abbiamo un crimine da risolvere, ovvero scoprire a chi appartiene l’orecchio mozzato trovato nel prato ( e se vogliamo qui abbiamo anche un tipico mcguffin hitchcockiano, ovvero un oggetto importante per i personaggi ma non per lo spettatore ma che da’ il via all’azione); poliziotti corrotti e doppiogiochisti (vedi l’uomo in giallo) ed ovviamente un criminale da neutralizzare. Insomma, Lynch è riuscito con un solo film a riportare alla ribalta un genere del passato, con una nuova tipologia di messa in scena: onirica e surreale (sull’onirico non ci sarebbe nulla di nuovo visto che anche il noir classico era molto legato alle forme di manifestazione del sogno, ma era totalmente assente lo stampo surrealista tipicamente lynchano).

Inoltre il film ha sempre un punto di vista iniettato di desiderio di Jeffrey nei confronti della cantante, ma anche nostro. Nella famosa scena dello stupro con il velluto blu vediamo con gli occhi del protagonista, abbiamo lo stesso punto di vista voyeuristico. Lo spettatore si fa protagonista con una semplice soggettiva.

Uno dei migliori neo-noir di sempre.

Voto: 90%

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Il senso di perdizione ed inquietudine che avvolge lo spettatore.

La regia.

Dennis Hopper mostruoso (in tutti i sensi).

Il “teatro della morte” nel finale.

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In alcune scene i dialoghi non sono il massimo.

<Stefano Tibaldi>


Zombieland

Realizzare uno zombie movie che NON faccia ridere, oggi, è già un risultato notevole.
Farlo (sfuggire abilmente al risibile) riuscendo ANCHE a far sorridere, è perfino rivoluzionario.
E il film, da questo punto di vista, merita senza esitazione un plauso.

Per il resto (che poi è il Resto nella sua interezza) come quasi ogni cult, l’opera (nel senso ampio e organico del termine) è sopravvalutata. Vince con facilità la “sfida” interna al genere, in gran parte per assenza di avversari. E convince, poi, perché prova a ribadire il meglio del genere senza nascondere il peggio, anzi, sfruttandolo (abusandone talvolta) per far emergere la forte componente autoironica del genere stesso [ed ecco, forse, anche il senso lato del titolo Zombieland].
Ma va detto che ci sono diversi “punti morti” (:D) della storia. Circostanze inspiegabilmente estranee al carattere del film, che rallentano, e a volte paralizzano, lo svolgimento (soprattutto, la lunga scena in casa di Bill Murray).
Così come , più che presenti, sono i banalissimi cliché da commedia di Serie B (inerenti sia alla caratterizzazione delle dinamiche tra i personaggi, sia a particolari presunte-frasi-a-effetto).

Ciò che funziona nel film (quando funzionano), comunque, sono singole scene, anche estratte dal contesto.
L’incipit indimenticabile (che presenta l’idea accattivante di una lista di regole da rispettare in un mondo popolato da zombie)..l’episodio nel supermercato..lo sterminio estatico di zombie nel finale, da parte di Tallahassee, all’interno della suggestiva atmosfera del Luna Park..e (come, appunto, nella scena precedente) il 90% di quello che dice e fa Tallahassee (personaggio forzatissimo..ma spontaneamente carismatico).

L’assortimento e la caratterizzazione del cast, fra l’altro, è sicuramente tra le note di rilievo.
Pochi (pochissimi) attori, a ben vedere, ma perfettamente funzionali alla completezza dell’opera.
Che non è completa, ma..

..”realizzare uno zombie movie che NON faccia ridere, oggi, è già un risultato notevole.”

Voto: 75%

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– Uno dei migliori zombie movie in circolazione
– La miglior parodia di uno zombie movie
– Cast azzeccato
– Studiato appositamente per diventare un Cult

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– Enorme paralisi narrativa, al centro della narrazione
– Cede volentieri a un’ironia dalle facili aspettative
– Intrinsecamente pretestuoso nelle fondamenta che getta alla base di ogni scena

|SF|


Seven

Voto 18/20

“Seven” è Bello.
Un film che non stanca mai, con ottime scelte fotografiche, ottimi dialoghi, ottime atmosfere. Inutile negare, però, che senza gli ultimi minuti (dal momento esatto in cui l’assassino si presenta nel commissariato, fino alla fine) l’opera non avrebbe aggiunto nulla di più di una maggiore qualità espressiva alla storia dei film di questo genere.

È da lì che bisogna partire. È di quella sezione conclusiva che ha senso discutere (posta l’ottima fattura del resto).

In particolare, è nel corso del viaggio in macchina alla fine del film, che avviene qualcosa di sconvolgente.
L’assassino, nello spiegare le sue ragioni, nel difendere l’idea di una giustizia a noi ignota, ci conduce abilmente all’interno di sentieri emotivi terribilmente nuovi. Spaventosi, perché a tratti perfino condivisibili. L’abilità registica è qui evidente nella capacità di ribaltare la forza attrattiva di un Argomento rispetto al suo Opposto. L’immagine, la Parola, l’Atteggiamento comunicativo dei personaggi è studiato per dare centralità all’Argomento “sbagliato”.

“Innocenti? Se è una battuta non fa ridere… un obeso, un disgustoso obeso che faticava a stare in piedi, un uomo che se lo incontri per la strada chiami a raccolta i tuoi amici per fartene gioco insieme a loro, un uomo la cui sola vista mentre stai pranzando ti faceva passare la voglia di mangiare… e dopo di lui l’avvocato, in cuor vostro dovreste ringraziarmi per averlo fatto, un uomo che aveva dedicato la sua vita al denaro, ai beni materiali, mentendo, con tutta la veemenza di cui era capace, dando così a volgari assassini e stupratori la libertà… una donna, così orribile dentro da non riuscire neanche a sopportare di vivere solo perché aveva perso la bellezza esteriore, un uomo spacciatore, uno spacciatore pederasta ad essere precisi, e non ci dimentichiamo di quell’altra infetta sgualdrina… solo in questo mondo di merda si possono definire innocenti persone come quelle e rimanere con la faccia seria. Ma questo è il punto, vediamo un peccato capitale ad ogni angolo di strada, in ogni abitazione… e lo tolleriamo, lo tolleriamo perché lo consideriamo comune, insignificante, lo tolleriamo mattina, pomeriggio e sera. Adesso basta però, servirò da esempio e ciò che ho fatto ora verrà prima decodificato, poi studiato ed infine seguito, per sempre.”
[Giusto..Sbagliato..? Impossibile non fermarsi un attimo a Riflettere..a “Sentire”..]

Inoltre, già da questo punto, e ancora, più avanti, ci persuade che la trama stia volgendo verso una terribile, ma ovvia, conclusione: Li ha attirati in una trappola! Vero. Ma incredibilmente diversa da come si poteva immaginare. Riscrivendo, di fatto, il campione delle possibili soluzioni dei film di genere.
Non solo, ma con questa conclusione viene richiamata, purificata e riempita di significato la scena in cui l’assassino risparmia il giovane poliziotto. Apparentemente, fino a quel momento, interpretabile come spiacevole riproposizione di un cliché.

È chiaro che la precisione con la quale il piano viene a svilupparsi, tasselo dopo tassello, è talmente perfetta, anche nelle sbavature, da sfiorare quasi il soprannaturale. Ma il tutto riesce a non apparire mai, in alcun momento, davvero (risibilmente) inverosimile.

Tre cose ho davvero odiato, invece, di questo film:
– Il ricorso forzatamente intellettualistico ai Libri (a cosa è servito leggersi Dante, Chaucer, la Bibbia, se non per ribadire l’ovvia natura religiosa dei delitti, basati sui sette peccati capitali);
– Il teorema, spudoratamente autoassolutorio, del “Se sei giovane sei avventato. Se sei vecchio sei riflessivo”;
– Tutta la scena della cena a tre, voluta dalla moglie per far legare i due colleghi..voluta dal regista per farci legare alla moglie;

Nel complesso (e per lunghi tratti), ad ogni modo, quest’opera rappresenta uno di quei rari casi in cui Fortuna (la grande fama di cui gode) e Merito (valori effettivi espressi) si trovano, giustamente, a coincidere.

P.S.
Indimenticabile:
(Il Det. Somerset guarda un corpo sul ciglio della strada)
David Mills: Che cosa c’è?
William Somerset: Un cane morto.
John Doe: Io non sono stato.

|SF|


Paradiso amaro

Paradiso Amaro

Voto: 16/20

Dai ai tuoi figli abbastanza soldi per fare qualcosa ma non abbastanza per non fare niente. (Matt King)

Graffiante. Pungente. Sottile e Profondo. Paradiso Amaro è uno di quei film che esaltano Hollywood ed incantano per piacevolezza ed originalità. Con un George Clooney decisamente sopra le righe, come suo solito d’altronde, il film racconta il dramma di un uomo di mezza età che riscopre il valore della famiglia, proprio quando sua moglie sta per morire. Venuto a sapere di una sua relazione extra coniugale, Matt intraprende un viaggio alla riscoperta di se stesso. Tra paradisi naturali e parenti avari, le vicende scivolano piacevolmente e con un velo di amarezza tragicomica. Memorabili i dialoghi che alcuni personaggi intraprendono con la moglie di Matt in stato comatoso; affascinante la naturalezza con la quale questi sembrino funzionali e del tutto inseriti all’interno di uno schema tutto sommato piuttosto semplice.

Dunque, se da una parte il film sembra ricalcare il tema di un semplice dramma, dall’altra il viaggio (più interiore che esteriore) equilibra le sensazioni negative, fornendo uno status quo praticamente perfetto e totalmente neutro.

Nonostante il film non sia caratterizzato da una sceneggiatura eccelsa, gli eventi non sono mai banali né scontati e sorprende la scelta (piuttosto curiosa) di non ritagliare mai spazio ad una piccola vendetta personale, che avrebbe donato senz’altro un’evoluzione più dinamica anche se, forse, decisamente meno profonda e strutturale.

I miei amici sul continente credono che, solo perché abito alle Hawaii, io viva in paradiso. Come fossi in una vacanza permanente, pensano che qui passiamo il tempo a bere mai tai, a ballare l’hula hula e fare surf. Ma sono pazzi. Credono che siamo immuni alla vita. Come possono pensare che le nostre famiglie abbiano meno problemi? Che i nostri cancri siano meno mortali? I nostri drammi meno dolorosi? Sono quindici anni che non salgo su una tavola da surf. Negli ultimi ventitré giorni ho vissuto in un paradiso fatto di flebo, sacche di urina e tubi endotracheali. Il paradiso? Il paradiso può andare a farsi fottere.  (Matt King)

Clooney incanta, ma state pur certi che sentiremo ancora parlare di Shailene Woodley, che interpreta la figlia primogenita di Matt in maniera intelligente e talentuosa, con una maturità davvero sorprendente.

Il film si fa piacere istantaneamente e conquista, ma non in maniera categorica. La sensazione di riflessione interiore che si assapora alla fine del film è tangibile e fa crescere l’apprezzamento della pellicola col passare dei minuti, fino a che non si raggiunge la piena consapevolezza di aver visto un film intenso ed originale, nonostante il genere non sia più freschissimo.

Roma, 29/07/2013

Stefano Cherubini


Cinque pezzi facili

Voto: 16/20

Si sa, attori del calibro di Jack Nicholson ne nascono uno ogni cento anni. Quel fuoriclasse assoluto della recitazione che è in grado da solo di cambiare la visione di una pellicola e di elevarla a qualcosa di intramontabile.

Cinque pezzi facili è un film “normalissimo”, una storia semplice: un uomo talentuosissimo, che ha deciso di godersi la vita preferendola alla sua brillante carriera da pianista, sarà costretto a fare i conti con le sue scelte quando si troverà di fronte il padre gravemente malato.

L’evento filmico è un continuo movimento, con qualche spunto interessante e ricercato, come l’estremizzazione dell’era del consumismo da una parte e la distruzione del materialismo dall’altra. Nulla di più. E allora com’è possibile che sia diventato un cult “on the road” paragonabile agli splendidi Easy Rider (nel quale un giovanissimo Nicholson interpreta un ruolo minore) e La Rabbia Giovane? Semplicemente per una sola e magnifica interpretazione che riesce a far trasparire completamente qualsiasi tipo di emozione attraverso lo schermo. E così, l’irritazione provocata dal comportamento di Bobby nei confronti della sua ragazza svampita è reale e tangibile, il suo dolore per le condizioni del padre, nonostante i due abbiano avuto chiare divergenze sulla visione della vita, è riflessivo e commovente.

Il film, molto breve tra l’altro, scivola via senza troppi indugi sotto i colpi di una buona regia e fotografia, neanche troppo ricercata. Ma ciò che rimarrà, nel tempo, saranno le espressioni e i colpi di genio di un attore che non ha mai smesso di emozionare in cinquant’anni di immensa e straordinaria carriera.

Roma, 22/07/2013

Stefano Cherubini


C’era una volta in America…

Voto: 20/20

Mi piace definire l’ultimo immenso capolavoro di Sergio Leone come la pellicola dei rimpianti. Ci siamo chiesti tutti per quale motivo un tale genio abbia dedicato la sua intera carriera registica a firmare solo ed esclusivamente dei film western e non si sia dedicato mai ad altro; ed abbiamo ammirato tutti con magnificenza la malinconica biografia di Noodles, raccontata da ben 4 ore di estasi cinematografica e musicale, che culmina in un calderone di rimpianti e promesse mancate.

C’era una volta in America è uno spaccato profondo sul proibizionismo, un quadro storico sugli anni ’20 e ’30, una riflessione sui rapporti umani e sull’amicizia. Raccontato attraverso flashback e flashforward, questo gangster movie copre un arco narrativo di 12-13 anni in maniera sublime ed estasiante. I toni cupi e malinconici, accompagnati da una delle più grandi colonne sonore di sempre, rendono il lungometraggio di un realismo accecante. Immagini travolgenti, regia fluida, montaggio superbo, soprattutto se si considerano le quasi 10 ore di materiale iniziale (ridotte fino a 4 e 30 nella versione restaurata, a mio avviso la migliore).

Leone riesce a creare un film unico nel suo genere, qualcosa di estremamente diverso ed originale. In un’epoca dove il ganster movie aveva già conosciuto una delle sue massime espressioni (Il Padrino), Leone reinventa il genere, ma lo fa mantenendo l’esclusiva. Difatti, la bellezza dell’opera va di pari passo con l’enorme complessità di quest’ultima, gestibile soltanto attraverso l’immensa bravura del regista italiano, capace di dirigere qualsiasi aspetto del film mantenendo un controllo totale e realizzando un’opera per larghi tratti immersa in uno stile “kubrickiano”.

A distanza di anni il capolavoro rimane intatto, così come tutta la filmografia del regista italiano; godibile e sprizzante di energia come se il film fosse uscito nell’ultimo decennio.

Se ci fosse una poesia del cinema, C’era una volta in America sarebbe una delle massime espressioni.

Capolavoro Epico e assolutamente imperdibile.

Roma, 08/07/2013

Stefano Cherubini


Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Voto: 17/20

Quando la realtà incontra la fantasia, quando i sogni incontrano il tangibile, quando la percezione del reale incontra l’impossibile: tutto questo è “Chi ha incastrato Roger Rabbit?“. Il capolavoro di Robert Zemeckis, girato in tecnica mista, ci catapulta in un mondo dove i cartoni esistono realmente e vengono ingaggiati come protagonisti dei loro stessi spettacoli. E così, tra personaggi Disney, Warner Bros e alcuni del tutto inventati, le cupe vicende si svolgono a cavallo tra il mondo reale e Cartoonia, dove un investigatore privato, alle prese con vecchi fantasmi e ricordi drammatici, dovrà smascherare il complotto ai danni del buffo e irresistibile Roger Rabbit.

E’ complicato considerare questo gioiello come un semplice film d’animazione, ma al tempo stesso è limitativo definirlo un film standard. L’equilibrio perfetto tra la commedia e la pellicola drammatica ci accompagna per tutti i 90 minuti, scandendo al millimetro la distinzione tra il mondo reale e Cartoonia, che difatti non si incontreranno mai realmente se non negli ultimissimi minuti.

Affermare che il film sia perfettamente riuscito solo per l’immensa bravura registica di Zemeckis o per la straordinaria originalità del tema non è propriamente vero. Un enorme plauso va fatto al disegnatore dei due protagonisti principali: Roger e Jessica Robbit. Irresistibili, poetici e straordinariamente divertenti, dominano le scene dall’inizio alla fine con battute e trovate memorabili che colmano l’immaginario collettivo dei canoni comici moderni.  Sensazionali e strepitosi alcuni spunti comici: su tutti la scena in cui il coniglio non resiste al coro “Ammazza la vecchia…” e, ancora quando, sbellicandosi dal ridere di fronte ad un cortometraggio del celebre amico di Topolino, grida: “Nessuno prende le botte come Pippo”.

Il resto è coronato splendidamente dai tempi registici di Zemeckis, dall’ottima interpretazione di Bob Hoskins nei panni dell’investigatore privato e dalla splendida fotografia che pone in risalto la meravigliosa e innovativa tecnica realizzativa. In attesa del probabile sequel, che vedrà molto probabilmente l’utilizzo del 3D, non resta che gustarci questo esempio di grande cinema che ha segnato la fine degli anni ’80.

Roma, 01/07/2013

Stefano Cherubini


Fargo

 

Voto 18/20

Fratelli Cohen divennero autori di culto nel panorama cinematografico contemporaneo con questo grottesco noir ambientato nel nulla. E’un nulla  da intendersi letteralmente: solo ghiaccio e neve, qualche costruzione ed attività commerciale, gente apparentemente tranquilla ed innocua. Ma è qui che emerge il Male, e lo fa celandosi banalmente all’interno di un paesino di provincia dove non accade mai nulla ma, come nelle più cruenti cronache nere, poi si manifesta l’orrore. All’inizio del film una didascalia ci avverte che i fatti che stiamo per vedere sono basati su una storia vera, ma questa ipotesi viene confutata da una scritta finale che spiega che la vicenda è di pura fantasia. Allora perché inserire quel messaggio ingannatore prima dell’inizio della narrazione?

Probabilmente i due autori volevano farci capire che la vicenda è si inventata, ma può benissimo essere molto simile ai molti casi di crimini violenti che avvengono nella provincia americana (ovvero nel nulla più totale). La storia di Fargo potrebbe essere già avvenuta e potrebbe avvenire in un qualsiasi ed isolato luogo degli Stati Uniti e, come le altre macabre vicende, si perderebbe nel marasma crescente dell’orrore quotidiano. E’il cinema, con il suo occhio meccanico in grado di registrare immagini, ad estrapolare questa sanguinolenta narrazione e ad elevarla come uno dei capolavori del cinema americano.

Il film dei fratelli Cohen è un noir rielaborato, aggiustato, corretto secondo la messa in scena più consona ai due autori, operazione già riuscita egregiamente con la loro pellicola d’esordio (Blood simple del 1984). Nonostante il film sia ricco di sangue, che ha un impatto visivo decisamente efficace sul candore immacolato delle neve, è l’ironia a farla da padrone. Un ironia costantemente presente sia nei tutori della legge, che sono una donna incinta allegra e spensierata (un bravissima Frances McDormand premiata giustamente con l’Oscar) ed il suo collega un po’ ingenuo ed infantile. Ma anche la controparte dei sequestratori/killer non è da meno:uno logorroico e goffo mentre l’altro silenzioso e quasi menefreghista (anche se è solo un’apparenza e molto presto la sua ferocia verrà a galla). Dimostrano la loro essenza di sicari solamente nel bisogno e nel contendersi il denaro, ed ecco che ancora dal nulla emerge la violenza: delle nullità divengono degli spietati assassini quando la posta in gioco diviene la loro libertà o la loro fortuna.

La fotografia fredda del film rende ancora più alienante la vicenda narrata, nella misura in cui riesce ad enfatizzare al massimo le potenzialità visive dell’immensa distesa bianca che circonda ed ingloba gli attori della tragedia ( o meglio della tragicommedia).

Personalmente ritengo quest’opera dei fratelli Cohen la più riuscita ed emozionante della loro carriera per molti motivi: innanzitutto la scenografia e la fotografia sono troppo funzionali alla narrazione ed al senso di alienazione che essa trasmette (aspetti tecnici così curati non li ho trovati in molti loro film), il cast superlativo e perfettamente calzante ai rispettivi ruoli, l’ovvia regia sempre eccelsa ed infine l’inquietudine che a fine visione rimane palpabile nell’aria. L’inquietudine di vivere in una piccola città dove non avviene mai nulla.

>Stefano Tibaldi<