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Per quelli che hanno capito.

IO non sono democratico.
non credo nel valore della maggioranza. LA CONSIDERO (al pari di altre soluzioni) un scelta di forza.
ogni massa, PER ME, tende (in maniera e in misura diversa) alla pigrizia, all’incoscienza.
ogni massa, praticamente per definizione, non elabora idee o direzioni, ma è sempre uno stare-con o uno stare-contro.

al lato opposto della massa-di-maggioranza, però, non c’è il singolo.
al lato opposto ci sono altre masse.
il singolo è un concetto irreale sia se tace
(anche il silenzio fa massa, pigro e incosciente)
sia se esprime
(dire, scrivere, affermare qualcosa è un modo per far aggregare una massa attorno a quel punto originario e stare-contro, quindi, rispetto a un’altra massa).

Le masse, quindi (non una ma molteplici) sono tutto ciò che abbiamo.
il giudizio “la massa non capisce”, che SEMBRA OGGETTIVO A CHI LO ESPRIME, è un giudizio soggettivo di una massa di individui nei confronti di un’altra massa di
individui.
NESSUNO, fra l’altro, SI CONFRONTA MAI, realmente, con l’intera gamma dei giudizi.
anzi, OGNUNO ha a che fare con una porzione infinitesimale di giudizi (amici, familiari, conoscenti, contatti dei social network, blog, qualche giornale o rivista).

cosa distingue, dunque, un opinionista da un critico(-di-professione)?
MI VIENE DA PENSARE al paradosso del sorite, di Eubulide, e MI CHIEDO:
dopo quanti libri o quanti film o quanta arte o quante parole o quanto tempo o quanti anni o, in definitiva, dopo quanti di questi “quanti”, si ha diritto a ritenersi un critico!?
ma se non è un numero, allora il problema è qualitativo!
dovremmo definire la qualità.
e definirla significa definire le qualità che caratterizzano la qualità.
impresa già tentata e fallita molteplici volte.
il problema torna sempre, tautologicamente, al punto di partenza.
e paradossalmente il GUSTO sembra essere l’unico strumento interpretativo, se lo si accetta umilmente come assioma paradossale.

il “critico-di-professione”, va detto, è terrorizzato, più che dal gusto avverso, dall’idea-avversa-ben-argomentata da parte del “profano”. l’incontro con questo oggetto linguistico rischia di mettere in dubbio la sua intera formazione, il suo ruolo, la sua autorità. lo scopo non è quindi depotenziare l’argomento opposto attraverso i propri argomenti, perché questo darebbe credibilità al profano togliendo prestigio al critico.
lo scopo è sottolineare la distanza, la differenza tra chi può dare giudizi e chi non può.

rido sonoramente (da fervente studioso) di chi sostiene che “lo studio” e “l’esperienza in materia” siano i criteri di identificazione della proprietà di giudizio, quindi della distinzione tra un giudizio proprio e uno improprio.
anche perché, se così fosse, i “critici-di-professione” dovrebbero essere tutti più o meno d’accordo, almeno sulle linee fondamentali di pensiero.
nulla di più falso.
la critica è una massa caotica, piena di micromasse in contrasto, che appare compatta solo nel momento in cui deve porsi come realtà distinta dal resto.
per certi versi, anzi, il mondo della critica presenta, nel suo complesso, meno certezze e garanzie del mondo di opinioni circostante.
un’assenza di certezze e garanzie che è il prodotto diretto di una totale e incrollabile fiducia del singolo critico nei confronti di sé stesso.

spaventa l’espressione “VOI non avete capito quest’opera”.
è un modo per malcelare l’espressione “IO ho capito quest’opera”.
MI CHIEDO se ci si renda conto della quantità e qualità di implicazioni dentro e attorno una qualunque opera..
..se ci si renda conto dell’assoluta approssimazione che si attua attraverso il termine “comprendere”.

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[ATTUALIZZAZIONI]

1) Valutare almeno una delle altre ipotesi.
Es:
-La Grande Bellezza potrebbe non essere un bel film
-La Grande Bellezza potrebbe non essere totalmente un brutto film
-La Grande Bellezza potrebbe essere un bel film
-La Grande Bellezza potrebbe non essere totalmente un bel film

1.1) PER ME
-parlare una manciata di secondi, con un inglese stentato, annoverando Maradona come fonte d’ispirazione
-vendere il successo di un film alla pubblicità Fiat
-la frase, al rientro dall’America “grazie, mi avete fatto sentire come Belén”
È ANTICULTURA

1.1.1) PER ME
gli Oscar sono uno strumento pubblicitario diversamente-subliminale.
La storia dei vincitori e degli esclusi, in questo senso, è indicativa.

2) Non importa stabilire chi ha ragione e chi ha torto.
Al massimo potremmo divertirci nel discutere se abbiamo tutti ragione o abbiamo torto tutti quanti.
E in questo caso, qualunque sia la risposta, avremmo comunque tutti quanti, allo stesso tempo, sia ragione e che torto.

3) Non c’è bisogno di leggere tutta la riflessione. Bastano le poche parole in maiuscolo nel testo.

|SF|


South Park: Genio o Volgarità?

South Park

Era il lontano 1997 quando i South Park videro la luce. Che piaccia o no, hanno cambiato radicalmente il modo di intendere il cartoon. Possono essere considerati gli eredi morali (o l’evoluzione diretta) dei Simpson prima e dei Griffin poi, senza alcuna ombra di dubbio. La serie, nata dalle menti geniali di Matt Stone e Trey Parker, ha suscitato da subito grande clamore, spaccando completamente critica e pubblico. C’è chi li definisce “fottutamente” divertenti, chi li definisce volgari, chi geniali o chi addirittura blasfemi. Ma è davvero possibile fornire un giudizio così netto su Cartman & Co.?

Analizzando un attimo i “fratelli maggiori” (Simpson e Griffin), ci si rende conto come South Park mescoli e ridefinisca i canoni classici del cartone, e addirittura l’uso ultimo che se ne può fare. Se le vicende di Peter Griffin (o ancor meglio di Homer Simpson) portano sempre ad un finale moralista, dove, nonostante dei personaggi bizzarri e a volte anche politicamente scorretti, si finisce sempre col rendere una qualsiasi azione (buona o cattiva che sia) al servizio dell’anima candida di un cartone per bambini, la serie di Stone e Parker rimescola tutto abbandonando qualsiasi risvolto moralistico. Anche negli episodi più “leggeri” non c’è un minimo accenno ad una sorta di significato ultimo; si cerca sempre e solo di raccontare delle storie, nella maniera più diretta possibile. Ed è in questo che la serie può essere considerata estremamente volgare: che si prenda di mira una religione od una razza, lo si fa sempre con una schiettezza impressionante, lì dove il personaggio di Eric Cartman giganteggia enormemente…

…ma, se la volgarità rende South Park una serie che ha veramente poco a che fare con un programma educativo, allo stesso tempo, grazie al modo originale ed assolutamente satirico con il quale viene utilizzata, la eleva ad una genialità pura ed innegabile. Per rendere meglio l’idea, potremmo paragonarla alla comicità di Daniele Luttazzi [o, citando (per così dire) le sue “fonti”, alla comicità di Billy Hicks]. Le parolacce e i vezzeggiativi razzisti e sessisti sono all’ordine del giorno, così come numerose parodie di personaggi storici e contemporanei di ogni tipo (soprattutto americani).

Altro aspetto decisamente fuori dal comune è lo stile grafico, al tempo stesso poverissimo e ricchissimo. Difatti, se dal punto di vista strettamente artistico la serie non si può definire un capolavoro, dal punto di vista prettamente funzionale rasenta la perfezione. L’armonia che c’è tra lo stile grafico e il carattere della serie è davvero senza limiti, tanto che ci si chiede come una serie del genere avrebbe potuto avere altrettanto successo con un’impostazione artistica differente.

South Park è decisamente una serie TV “non per tutti”; prima di tutto, bisogna riconoscere che la satira che viene imposta non è di stampo globale. Ha decisamente un tratto molto americano, e presenta dei caratteri e dei rimandi generazionali davvero notevoli. In secondo luogo, bisogna certamente riconoscere come un personaggio come Cartman (e non solo lui) possa suscitare disgusto e distaccamento da una serie che fa della satira razziale e religiosa il suo cavallo di battaglia.

Certamente destinata a rimanere nella storia, South Park continuerà a divertire, a stupire e (perché no) a suscitare sentimenti di disgusto. Ma, che la si ami o la si odi, bisogna riconoscerne l’importanza storica nell’evoluzione del cartoon.

Stefano Cherubini


Da Rashomon ad Imprint: il cinema giapponese ragiona sul punto di vista

Il punto di vista è il luogo sacro in cui si realizza una percezione. Il film di Akira Kurosawa è uno dei primi esempi di cinema a fornirci una molteplicità mai uguale di punti da cui vedere e quindi enunciare un’unica storia. Ogni testimone o sopravvissuto all’accaduto racconta una storia, che è la stessa ed ha i medesimi personaggi. Ma proprio le modificazioni portate da quest’ultimi non ci consentono di avere un approccio sicuro e senza dubbi con la realtà dei fatti.

Ogni storia potrebbe essere la vera, non c’è un punto di vista onnisciente e super partes: ogni racconto si genera da una parte del racconto stesso, un particolare diventa universale ma non abbiamo mai la percezione dell’universale in quanto tale.

Tutto può essere falso, ma non tutto può essere vero se seguiamo la logica canonica del narrare una storia. Tuttavia nel film del geniale cineasta nipponico tutto può essere plausibile, non c’è modo di distinguere il racconto falso dal vero. E se un racconto può essere più veritiero di un altro, siamo comunque lontani dalla verità totale. E’ questa mancanza di implausibilità a rendere difficoltoso il riconoscimento: se un tale ci racconta che Cappuccetto rosso mangia il lupo ed un altro che è il lupo a mangiare la bambina tendiamo (per plausibilità narrativa) a dare ragione al secondo.

Ma in Rashomon non è possibile fare questa diversificazione: tutto è plausibile ma una storia sola è vera, e per assurdo potrebbe essere anche quella della vittima che narra il suo punto di vista dall’aldilà.

Con Imprint del geniale e feroce Takashi Miike (episodio contenuto nell’antologia Masters of horror) il punto di vista è anche qui molteplice ma ha la stessa matrice: è il personaggio della prostituta sfregiata che ogni volta modifica il racconto della morte della donna amata dall’americano. E talvolta tale racconto proviene dalla “metà oscura” nascosta della donna, una metà oscena e deforme che la costringe a mentire in continuazione (e ad uccidere).

Ma anche qui il finale non ci da la sicurezza che speravamo di trovare: dopo tutti gli orrori sopportati, lo spettatore non viene neanche ripagato con la verità che continua a rimanere ambigua ed inquietante.

Dove si trova questa agognata verità? Chi e come continua ad ingannare lo spettatore? Come è morta (se è morta) la donna tanto amata dal protagonista?

Non ci è dato saperlo: forse è questo l’orrore più grande presente nel film di Miike.

>Stefano Tibaldi<


Il Cinema post-mortem

Il cervello, con le sue sinapsi ed i suoi neuroni, ha delle potenzialità straordinarie che molto spesso sopperiscono alla mancanza o morte di un punto di vista narrativo: il personaggio. Far narrare una storia da un personaggio che si presenta già trapassato all’inizio della vicenda non è una consuetudine del cinema moderno o contemporaneo. Un testo filmico affascinante e monumentale come Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950) inizia proprio così: il cadavere di un uomo galleggia in una piscina, e la vicenda viene ripercorsa da un lungo flashback appartenente alla mente del corpo privo di vita. Il cervello diviene il punto di vista, l’istanza narrante. E’ come se l’organo continuasse una propria esistenza oltre la morte, un’esistenza totalmente disinteressata alle sorti del resto del corpo a cui appartiene. Ma non ritroviamo questo affascinate espediente narrativo, nel cinema classico, solo nel melò/noir sopracitato.

Circa tre anni prima, un altro grande cineasta come Charlie Chaplin aveva sperimentato questo spaziante incipit: in Monsieur Verdoux (1947) la macchina da presa mostra per prima cosa la tomba del protagonista da cui proviene la voce narrante che ci introdurrà ai fatti di questa geniale commedia nera.

Ma è con la modernità che le potenzialità del cervello (grazie anche allo sviluppo tecnico/stilistico della macchina cinema) hanno potuto avere una giusta manifestazione o raffigurazione visiva sullo schermo. Uno degli esempi più geniali ma allo stesso tempo controversi è Strange days (Kathryn Bigelow, 1995): in questo sci/fi thriller, la droga che sta spopolando in America è costituita da dei dischi in cui sono registrati gli attimi di vita più intensi di una persona trapassata. Il cliente può dunque decidere di vivere una intensa esperienza sessuale, una rapina a mano armata carica di adrenalina, un momento romantico ecc… I proprietari di quelle immagini mentali non sono più tra i vivi, eppure chiunque può accedere a quelle immagini pagando una somma ragionevole.

Altro esempio eclatante è Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999). In questo caso il cervello si dimentica “di essere morto” e permette ad un fantasma di convivere con un bambino che è in grado di vedere gli spiriti (il sesto senso del titolo è proprio una caratteristica percettiva potenziata nel cervello del piccolo protagonista).

In altre pellicole le “manifestazioni narrative” del cervello sono totali o si presentano in modo alternato: il primo è il caso di Inception (Cristopher Nolan, 2010) mentre il secondo di Source code (Duncan Jones, 2011). Nel film di Nolan tutto il film non è altro che un delirio onirico architettato dal subconscio del protagonista: un solipsismo totale (solo io, e quindi solo la mia mente esiste) senza una via di ritorno per il mondo del reale. Nella seconda opera di Jones il cervello di un soldato morto viene collegato a quello di una delle vittime di un attentato terroristico. In questo modo l’ufficiale può rivivere continuamente gli ultimi 8 minuti precedenti l’esplosione ed individuare il colpevole. Sono i collegamenti tra i due cervelli appartenenti a corpi trapassati a permettere al protagonista di continuare l’indagine.

Il cervello indipendente sta diventando un consuetudine narrativa estremamente caratterizzante il cinema moderno: vedremo se questa scelta stilistica sarà man mano arricchita da trovate originali o se scivolerà inevitabilmente nell’eterno ritorno dell’uguale.

>Stefano Tibaldi<


Che Genere di Genere?

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La Domanda.
La Domanda è la Risposta [Cit].
Per quanto ampia, complessa, sfaccettata, ogni Opera si riflette e definisce e raccoglie attorno a un atto propulsivo di fondo, costituito dall’intenzione dell’Autore di suscitare nello Spettatore una precisa Domanda che possa assumere le fattezze di una Richiesta nei confronti dell’Autore stesso..e alla quale il solo Autore possa rispondere, attraverso l’Opera stessa da cui la Domanda origina.
Il meccanismo, più precisamente, si articola secondo un percorso che prevede una dialettica costante tra Autore e Spettatore, attraverso passaggi graduali (continui, pur nella distanza). Una relazione, però, de-sincronizzata che prevede una forma di preveggenza, una lungimiranza creativa nel modo in cui l’Autore traduce, nell’Opera, le proprie intenzioni prospettiche.
In sostanza, chi offre deve convincere chi riceve (ma senza mai “incontrarlo” realmente) ad accogliere una necessità di Risposte che non gli apparteneva. Quello che definiamo “Genere” non è altro che quella Domanda che l’Autore chiede allo Spettatore di accogliere come proprio approccio contemplativo.

Come evolverà la relazione tra questi individui? [Opera Emozionale/Drammatica]
Come evolverà l’universo interiore di questo personaggio? [Opera di formazione]
Qual è la verità dei fatti? [Thriller]
Chi di loro sopravviverà? E quelli che non sopravviveranno, come verrano eliminati dalla storia? [Horror]
(Ecc..)

Merita un cenno particolare quella Regione di Domande che giace ai confini (o attorno) alle Domande stesse.
Opere che tentano di eludere la Domanda, sia in senso Caratteriale (quello opere immobili che si risolvono nell’atmosfera e/o nelle peculiarità descrittive), sia in senso Surreale (la ricerca programmatica di una forma di Anti-Domanda).
Ma anche Opere limpidamente Concettuali, che esprimono l’obiettivo dichiarato di riflettere sulla Domanda in sé..o che pongono semplicemente lo spettatore nella prospettiva viziosa e inconclusa (..inconcludente? ..inconcludibile?) di una MetaDomanda:
“Quale Domanda vuole pormi quest’opera?”

La Domanda specifica che un film può suscitare ha un’enormità di sfumature possibili..almeno tante quante sono le forme linguistiche che possono assumere tali Domande. Problematica (questa) che inizia ad affluire nel Concetto di Stile, ovvero nel “COME” specifico del porsi di una Domanda, nelle modalità di traduzione dalla Domanda-come-Idea alla Domanda-come-Evento-Estetico.

Di essenziale vi è la capacità di individuare nella Domanda specifica il nucleo orbitale dell’Opera, al fine di definirne con maggiore consapevolezza una o più aree di Genere.
Genere come Direzione Dialettica, dunque..
..nella fessura comunicativa tra Creazione e Fruizione.

|SF|


Il Mockumentary: quando il fittizio ha la pretesa del reale.

Il Falso documentario ormai non è più uno stile di ripresa o una scelta di messa in scena. E’ diventato con gli anni un genere vero e proprio che va a riorganizzare in base alla propria  poetica tutti i generi “canonici” (dramma, avventura, horror, fantascienza ecc..).

Gli eventi presenti in questa tipologia di film hanno la pretesa totale di essere presi per veri, e specialmente nel cinema dell’orrore questa veridicità è apostrofata in modo verbale: la locandina di Non aprite quella porta ( Tobe Hooper, 1974) ha una straordinaria trovata pubblicitaria che recita ” Non è solo un film, è accaduto realmente”.

Ma la vera illusione di realtà è data dalla presa diretta: un personaggio dell’immaginario diviene esso stesso un regista, un operatore che riprende gli accadimenti che potranno essere testimoniabili solo attraverso il suo operato. E’ come se l’istanza narrante non appartenesse più al regista (inteso come autore dell’opera) ma ad una sua creazione, che prende il sopravvento e travalica  la diegesi del film per andare a creare a sua volta un suo universo diegetico.

Siamo di fronte ad un’ideale mise en abyme , dove ad una iniziale narrazione se ne aggiunge un’altra che la amplifica e potenzia a livello esponenziale. E’ il caso folgorante ed atroce di Cannibal holocaust (Ruggero Deodato, 1979), che non fa altro che affidare la seconda parte del film al documentario girato dai giovani antropologi, ritrovato dopo la loro scomparsa.

Dopo tale macabro ritrovamento non siamo più in una narrazione al presente, ma assistiamo insieme ad altri personaggi del film alla visione di un documentario dell’orrore girato in precedenza. E’questo il meccanismo interessante messo in atto dal mockumentary: i personaggi dell’immaginario creato assistono allo stesso orrore dello spettatore. In qualche modo è come se lo spettatore diventasse parte integrante della diegesi del film, mentre i personaggi divengono parte del nostro mondo del reale. Non c’è più alcuna linea divisoria tra la pellicola ed il quotidiano: l’orrore provato dai protagonisti del film è speculare al nostro. E’ il guardare le stesse medesime immagini, e quindi per estensione essere nella stessa sala cinematografica, a creare la co-presenza  tra noi ed i personaggi.

Altro film emblema del genere è sicuramente The blair witch project (Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, 1999), che a differenza di Deodato ha il suo punto di forza nelle mancanze, nei buchi visivi che creano la dimensione orrorofica.

Non viene mostrato nessun ritrovamento del nastro, una didascalia lo annuncia e basta. Non mostrandoci nessun essere umano impegnato nella ricerca, si ha la sensazione di essere noi spettatori coloro che hanno ritrovato il filmino. Siamo noi che lo guardiamo per la prima volta, siamo noi i privilegiati.

L’altra mancanza fondamentale è l’orrore supposto e mai manifesto, un orrore che era esplicito ed intollerabile nel film di Deodato. Un documentario su una strega che non mostra mai la strega mette in atto un meccanismo fondamentale del cinema classico: il film non è altro che un continuo dialogo (ma anche incontro/scontro) tra ciò che è mostrato e ciò che è celato, tra ciò che è in campo e ciò che non lo è.

E’ la mancanza visiva dell’orrore a farci capire che tutto non è casuale,  c’è una scelta registica dietro che punta al fuori campo inquietante: questa consapevolezza permette di ristabilizzare  la linea di demarcazione tra la diegesi del film ed il mondo del quotidiano. Il film non è un documento reale, in quanto è orchestrato da un autore/demiurgo (il regista) che decide cosa far vedere e cosa no.

Deodato,con il suo controverso film, riesce meglio: non sceglie cosa mostrare o, più precisamente, sceglie di mostrare tutto ma nasconde tale scelta nella violenza delle immagini.

>Stefano Tibaldi<


La necrofilia e l’illusione come ricostituenti dell’Io frammentato: Vertigo ed Inception.

Tra Vertigo (La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958) ed Inception (Cristopher Nolan, 2010) esistono due fili conduttori considerevolmente interessanti.

Uno è estremo ed inquietante: la necrofilia. Nella pellicola hitchcockiana il protagonista, interpretato da James Stewart, è ossessionato dalla bionda Madeleine, morta in circostanze ambigue.

Camminando per strada, un giorno il nostro protagonista incontra Judy, una donna identica alla defunta ma mora (che scopriremo essere la stessa Madeleine). Stewart inizia a frequentarla, non in quanto Judy, ma in quanto copia di Madeleine; la donna, per soddisfare i desideri dell’amato, è costretta a ritrasformarsi in Madeleine.

L’uomo ama dunque il ricordo di una donna, un’ombra, non una donna in carne ed ossa; quella donna in carne ed ossa è obbligata a divenire uno spettro, un cadavere, per farsi amare nuovamente.

La ricostruzione di un soggetto frammentato avviene dunque attraverso la riconciliazione con un soggetto morto. Il processo in questione è determinato fortemente dalla presenza fantasmatica della figura di Madeleine, così come nel film di Nolan dal continuo ripresentarsi del fantasma psichico di Mal (la defunta moglie del protagonista interpretato da Leonardo Di Caprio).

Scottie (Stewart) come Cobb (Di Caprio) desidera unirsi con la donna morta o con il suo simulacro, nella misura in cui il simulacro è la condizione essenziale di rinascita dell’identità del protagonista così come del suo desiderio erotico.

Cobb è ossessionato dal senso di colpa per la morte di Mal, e questo non fa altro che far ritornare in vita la donna, anche se solo nella sua mente. Mal non è adorabile come lo era nel mondo reale: la deformazione effettuata dal subconscio di Cobb la rende pericolosa e mortale.

Quindi la trasformazione nel testo filmico di Nolan è inversa: se in Vertigo il ritorno dalla morte (apparente) di Madeleine è coincisa con l’eros, l’amore, in Inception il viaggio a ritroso da una morte (vera) ha concepito una creatura tormentata, folle, omicida e quindi legata al thanatos.

Per la ricostituzione dell’Io frammentato e disgregato è fondamentale un altro elemento: l’inganno. O meglio,l’illusione.

I percorsi che affrontano Scottie e Cobb sono speculari ed egualmente drammatici, in quanto la ricostruzione di entrambi i soggetti avviene per mezzo di un’illusione. I soggetti maschili trovano una nuova ragione per vivere dopo lo choc iniziale ed hanno nuovi orizzonti lavorativi; tuttavia entrambi mantengono intatti i propri punti deboli: uno le vertigini e l’altro l’incapacità di distinguere il reale dal mondo onirico.

L’illusione di cui sono vittime permette ai soggetti in questione di reintegrarsi con la vita e di ricostruire la propria soggettività, in quanto senza l’illusione il soggetto ferito o traumatizzato non potrebbe rinascere.

Scottie e Cobb possono nuovamente sentirsi parte del mondo, una parte attiva che agisce, anche se in realtà sono entrambi sotto l’influsso di un ente esterno: i soggetti non sono dunque attivi ma, tramite un incrocio di passività ed attività, trasformano la propria passività in un’attività derivante da qualcun altro (o da qualcos’altro).

Il soggetto passivo può riprendersi semplicemente perché riesce ad illudersi, ma l’illusione è generata, messa in scena, da un ente puramente esterno. Cobb e Scottie si muovono, agiscono, perché qualcuno o qualcosa glie lo dice, lo comanda in modo più o meno indiretto. Per ciò che concerne il film di Nolan, gli enti esterni potrebbero essere più di uno: l’illusione di un comando arriva da Mr. Saito, ma il vero ordine parte dal subconscio del protagonista e per estensione da Mal.

>Stefano Tibaldi<


Film d’autore/Film di genere: esiste una differenza di qualità?

Tutta la critica (o quasi) è solita attribuire l’artistico ed il geniale a film cosiddetti “d’autore”, riconoscendo invece alle pellicole di genere il loro essere commerciali e largamente fruibili al grande pubblico. Questo atteggiamento obsoleto ed ingiustificato deve essere assolutamente superato se si vuole avere veramente una capacità critica super partes e soprattutto capace di individuare le qualità intrinseche del testo filmico indipendentemente dai temi (e quindi dai generi) trattati.

Il cinema d’autore non è l’arte pura, così come il cinema di genere non rappresenta il profitto e l’industria. Non bisogna innanzitutto dimenticare che il cinema d’autore è anch’esso un genere, e non sempre dei più interessanti e qualitativamente validi.

Quanti film ritenuti d’autore presentano gli stessi stilemi, clichés e standardizzazioni individuabili nei film horror, nei western, nei noir o nelle commedie romantiche? Eppure tante (troppe) volte viene decantata l’originalità di alcune pellicole autoriali, quando le loro tematiche e talvolta le stesse tipologie di messa in scena erano già presenti in altri testi filmici.

Allora perché mai bisogna considerare così testardamente il film d’autore superiore a quello di genere se presenta le stesse caratteristiche, talvolta anche in una forma più noiosa e meno affascinante?

Se fosse vera ed inconfutabile tale idea, la maggior parte dei grandi capolavori della storia del cinema andrebbero considerati dei “semplici” film commerciali: Nosferatu di Murnau (horror), Il grande dittatore di Chaplin (commedia o parodia), Blade runner di Ridley Scott (noir fantascientifico), Fino all’ultimo respiro di Godard (B movie noir) e si potrebbe continuare potenzialmente all’infinito.

Inoltre, come il caso di Blade runner, a creare il grande film è l’intreccio di più generi, che vanno a costruire un sotto-testo originale ed assolutamente stimolante all’interno dell’immaginario cinematografico.

In ultima analisi, molti degli autori che hanno reso grande il cinema non hanno fatto altro che girare film di genere: basta pensare ad Alfred Hitchcock o a Fritz Lang. Le loro opere sono dei film di genere e d’autore, alcune sono dei capolavori ed altre meno interessanti (e ci sono anche brutti film).

Ciò che è importante  sottolineare è che l’immaginario prodotto da questi due autori sopracitati è ineluttabilmente “intrappolato” all’interno di uno o più generi.

Nel cinema moderno/contemporaneo la simbiosi totale tra autore/genere la ritroviamo fortemente in Cristopher Nolan, che è riuscito a dare un’impronta personale anche ad un personaggio “commerciale” e fumettistico come Batman.

Il cinema, in ogni epoca, non ha fatto altro che mostrarci una cosa banale ma non intercettata o compresa da tutti: un film di genere può essere un grande film, un film personale e quindi d’autore una immensa e noiosa delusione.

>Stefano Tibaldi<