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Noah

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Eccoli, ancora una volta.
Schiere di “No”, in marcia.

Ho POCO a cuore l’opera e MOLTO il Regista.
Ma ENORMEMENTE a cuore l’equivoco insanabile tra Critica e criticare.

O si ha il coraggio e la capacità di affermare che un film sul Diluvio Universale non è realizzabile
(/non è realizzabile in maniera convincente)..
..oppure, se lo si ritiene possibile, si DEVE spiegare, punto per punto, in che modo era possibile Fare Meglio.
Il resto, tutto il resto, è capriccio linguistico, idealismo comatoso, brusio di fondo.

Nella sfera del linguaggio letterario [origine, mezzo e approdo del Critico] tutto sembra lecito.
Quindi ipotizzare la possibilità che un film contenga tutti gli estremi ma che risulti al contempo equilibrato.
Quindi dire di una stessa opera [leggasi: The Fountain] che ha “troppo” e “troppo poco”.
Quindi la Densità chiamata Caos (e viceversa), l’Intensità detta Lentezza (e viceversa), l’Ambizioso definito Pretenzioso (e viceversa)..a seconda delle esigenze.
Cumuli di parole a erigere un muro insormontabile di distanza dall’assunzione di responsabilità rispetto alla natura autenticamente violenta (perché specifica, particolare, concreta) delle Scelte [origine, mezzo e approdo di ogni Autore].

Nel realizzare DEVO scegliere.
E se scelgo, limito..tolgo.
E devo togliere sempre infinitamente più di quanto posso accogliere.
E di quel poco (eppure non-poco) che accolgo devo considerare le reciproche relazioni.
Un esempio specifico:
vedendo I Vigilanti in Noah è difficile non provare, nell’immediato, un senso di stupore ambivalente.
Poi, mentre lo sguardo si abitua [sarebbe più giusto dire che si deabitua alla loro non-presenza], ci si dovrebbe chiedere, banalmente, “Perché!?”.
Perché ha SCELTO quei Giganti di pietra?
Allora torna utile l’analisi di partenza. Se un film sul Diluvio è possibile, e si desidera realizzarlo, non si può non considerare le componenti essenziali di quella narrazione. Tra queste, la costruzione dell’arca e il problema della sua rappresentazione.
I gruppi di soluzioni disponibili non sembrano molti:
-Farla costruire interamente a Noè e alla sua famiglia
-Far intervenire una comunità più ampia di persone
-Introdurre una componente sovrannaturale
Ogni soluzione con i suoi limiti e le sue potenzialità espressive.

Probabilmente, la Scelta fatta da Aronofsky si inquadra all’interno di una SovraScelta Drammatizzante (la lotta con i discendenti di Caino, i conflitti famigliari, i turbamenti interiori) nei limiti di un soggetto che, in sé, parrebbe contenere un unico, nonché prevedibile, evento tensivo: il Diluvio, appunto.

In generale, comunque, non si può fingere di aver assistito a poco o a nulla!
Aronofsky ci offre un Noè perfettamente coerente con la narrazione biblica eppure profondamente rinnovato da una caratterizzazione inattesa, ma incredibilmente verosimile..
..reincarnando le ragioni narrative in una Domanda essenziale: l’Umanità merita di essere salvata?

Ciò che avrei cambiato di questo film è situato quasi interamente nei primi e negli ultimi minuti.
Nei primi bastava inserire solo la premonizione, senza troppe dispersioni (ma ripensando completamente il risultato visivo del serpente).  Gli ultimi (con la loro carica estrema di “luminosismi”) non dovevano proprio esserci.
Il MIO Noah parte dalla limpida presa di coscienza e termina con il dubbio lancinante (quel coltello sollevato al di sopra delle due nenonate gemelle).

Non faccio alcuna fatica ad ammettere che esistano film migliori (Benvenuti nell’Ovvio).
Neppure a immaginare una maggior cura realizzativa in quest’opera.
Faccio senz’altro qualche fatica in più nel sospettare che sia possibile un film complessivamente migliore sul Diluvio Universale.
Ma attendo, con fiducia, chiunque sarà in grado di proporre, oltre a un “No”, un “Ecco come”.

Risultato: 80%

+
Come prendere una storia che non ha più nulla da dire e insegnarle a parlare un nuovo linguaggio


Primi e ultimi minuti, tout court
Caratterizzazione statica e forzata della maggior parte dei personaggi (su tutti, i figli di Noè)

|SF|


Requiem For A Dream

43_bigEstate.. Autunno.. Inverno.. Primavera?
Requiem for a dream: eterno riposo di sogni infranti.
Quattro esistenze, semi-esistenti, dissolte da uno slancio di vita fallito.
Tentativi unilateralmente malati, in cui le soluzioni divengono ossessioni e le ossessioni finiscono con lo sconfiggere i buoni propositi e celebrare la morte di tutte le aspettative.
Ecco che allora si assiste alla propagazione ormai incontrollata di miasmi fatali. Anche i più piccoli, primordiali germi di felicità, finiscono per schiantarsi contro il muro della fuga dalla realtà.
La comprensione del mondo è una forma di utopia e l’autodistruzione pare essere l’unica via d’accesso: “È un motivo per alzarsi al mattino. È un motivo per sorridere, per pensare che il domani sarà bello. Che cos’altro ho?”  surly_requiem-for-a-dream
Le scelte cinematografiche persuadono lo spettatore (anche noi, in qualche modo, siamo vittime dell’elettroshock di Sara), l’abuso di suoni frenetici, riprese claustrofobiche, montaggi convulsi, split screen e time lapse generano una catarsi-al-contrario, una liturgia (il Requiem) che termina con un posa sacrale, di falsa speranza: la posizione fetale comune ai quattro protagonisti..  requiem-for-a-dream_480_poster
..ora, è inverno: possiamo percepire solo un freddo brutale (che taglia arti e vìola corpi).
Da una parte, due letti d’ospedale, quello di una madre ormai alienata e di un figlio mutilato dalle sue scelte, dall’altra, due letti altrettanto malati, sporchi di dolore e fatica.
Quattro anime sole, devastate, ancora in lotta tra la loro disperazione (di Harry e Tyrone) e il loro triste compiacimento (di Marion e Sara)
..ma non c’è rinascita.. o meglio, non lo sappiamo e non lo sapremo mai
..e, per ora(?), la messa è finita.

Voto: 90%

[+]
– Estro tecnico
– Colonna sonora

[-]
– C’è forse un protagonista di troppo, Tyrone (..o c’è troppo poco di lui)

Sonia Colavita|


The Wrestler

 

Voto: 18/20

La gloria e la decadenza. Il successo e la solitudine. Nascita, morte e (ri)nascita di un mito del wrestling. Una delle opere più “semplici” di Darren Aronofsky è probabilmente quella che lo consacra definitivamente tra i super registi hollywoodiani. Una purezza registica cristallina dirige con maestria questo dramma comune, dipingendo un piccolo gioiello del cinema moderno. Un uomo stanco, sfinito, che fa dell’adrenalina il suo punto di forza, incapace di relazionarsi al genere umano, vive il suo ultimo atto di vita cercando di sopravvivere ricordando le glorie di un tempo: il wrestler Randy “The Ram” aveva divorato gli anni ’80.

Tuttavia il dramma non è totale, almeno da un punto di vista strutturale. Nella parte centrale la storia sembra prendere una piega diversa; il recupero morale del protagonista sembra giungere a quella sorta di compromesso umano che allevia il fallimento totale di un sessantenne disperato che non ha saputo costruire nient’altro che fumo e fantasie. La redenzione morale sembra, anche solo per un attimo, dirigere il film verso un falso dramma, capace di risollevarsi attraverso la valorizzazione di tutto ciò che era stato trascurato. Così non sarà; la falsa speranza di cui lo spettatore si nutre per buona parte del film crolla improvvisamente sotto i colpi di un uomo lacerato e divorato dal suo stesso ego, costretto a rinascere dalle sue ceneri attraverso ciò che lo aveva portato alla distruzione: il wrestling. E così la splendida scena finale suggella un dramma psicologico imponente. Sotto le note di Sweet Child O’ Mine Randy dovrà scegliere tra la passione della sua vita e l’unica persona che non aveva mai smesso di credere in lui. Abbandonandosi a se stesso, non credendosi neanche più capace di amare umanamente, si getta tra le braccia del suo pubblico per un ultimo brivido, un ultimo giro di boa, un’ultima glorificazione attraverso una morte soffice e liberatoria.

Un Mickey Rourke sensazionale nei panni di Randy fa magistralmente da contorno ad una delle pellicole più toccanti degli ultimi anni. Intensa, vigorosa, dinamica: un dramma moderno a tutti gli effetti, capace di emozionare e di rivoltare totalmente i canoni classici del genere. Il ciclo di pessimismo che infonde l’opera è evidente, palpabile, tanto da generare una sorta di confusione a livello emozionale nella testa dello spettatore. Il giudizio morale sul personaggio è quantomeno difficile se non impossibile: gli elementi forniti non sono sufficienti a giudicare o commentare le scelte e gli sviluppi narrativi; tuttavia, l’impatto emotivo è talmente drastico da non riuscire a fare a meno di schierarsi: in quei secondi finali ognuno di noi arriverà a trovarsi totalmente d’accordo (o in estremo disaccordo) con il suo saluto finale.

Questo straordinario film è passato alla storia senza tanto clamore, se non per la straordinaria interpretazione di Rourke, con l’impressione che sia finito nel dimenticatoio fin troppo presto. Certamente non l’opera assoluta di Aronofsky, ma senza dubbio una delle più intense e riuscite.

P.S. Se vi state chiedendo se la recensione sia lo stesso valida nel caso in cui non siate amanti del wrestling…bhe…io lo detesto!!!

10,06,2013, Parigi

Stefano Cherubini


The Fountain

Voto 20/20

[Mi limiterò a esporre qualche personale approccio interpretativo, che possa chiarire i dubbi residui di alcuni e dipanare le ombre che altri (ingiustificabilmente) proiettano su quest’Opera.
Per il Resto, la scrittura fallirebbe miseramente..e neppure la visione, se non attenta (..coinvolta..reiterata..), sarebbe sufficiente.]
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Vita-e-Morte.
Elementi strutturali parzialmente-distinti all’interno di un unico Processo..
..senza banalizzazioni emotive..senza ridondanze concettuali.

Da questo nucleo centrale, poi, il ramificarsi complesso di tre dimensioni proiettive, intrecciate l’una all’altra (patria e immagine e approdo..l’una dell’altra):
La vicenda di un uomo, un medico, che cerca una cura per il male che sta uccidendo sua moglie;
La storia di un conquistadores alla ricerca dell’Albero della Vita, come speranza ultima di salvezza per il Regno della sua Regina;
Il viaggio (Fantascientifico? Onirico? Psichico?) di un-individuo-e-un-albero, all’interno di una sfera nello “spazio”, diretti verso la stella morente Xibalba.
Tre dimensioni che (non costituendo semplicemente delle coordinate, ma dei livelli dimensionali) contengono ogni rifrazione caleidoscopica dell’intero potenziale..ovvero, microramificazioni di un albero ideale, che rappresentano lo spettro completo delle collocazioni, da un punto di vista Temporale (“Presente” – Passato – Futuro), Spaziale (Realtà – Narrazione – IntroVerso), Semantico (Sé – Oltre Sé – In Sé), Relazionale (Il Tutto – l’Altro – l’Io),
[ecc.]

L’anello, simbolo (per eccellenza) del legame, cinge le varie dimensioni, tenendole unite.
Leitmotiv silente, attraversa e riempie di significato lo sviluppo tendenzialmente ciclico degli Eventi.

Tutto fluisce (per rifluire) nella medesima direzione.
Il cancro, che divora la donna, è anche lo spietato Inquisitore che insidia il trono..è anche il male che sta uccidendo l’albero all’interno della bolla spaziale.
Il medico, che cerca una cura alla malattia (poi alla vecchiaia e alla morte), è anche il condottiero eroico che cerca l’Albero della Vita..è anche l’eremita nello “spazio” (Universo più interiore che esteriore).
La donna, malata, è anche la regina Isabella (la Spagna, in generale) sotto assedio..è anche l’albero “in viaggio”, che perde Vita.
SOPRATTUTTO,
l’albero morente è nutrimento sostanziale per l’uomo racchiuso nella sfera..così come la minaccia per il regno di Isabella nutre gli sforzi del conquistadores..così come, nella Realtà, la malattia della moglie alimenta le intenzioni conoscitive (lo Slancio Prometeico) dello scienziato.
“La morte come atto di creazione”.
La forza repulsiva del polo negativo, in virtù di una trasmutazione alchemica interiore, funge da occasione propulsiva, vivificando, attraverso il Morire, la Vita stessa.

È a partire da questo, appunto, che quest’Opera sviluppa i suoi innumerevoli tasselli espressivi.
Tutta la complessità (innegabile) deriva dalla compattezza puntiforme di uno stesso seme (..che è Vita-e-Morte..), da cui genera l’intero percorso di complessificazione(/ramificazione).
Chiarendo e offrendo, però (in ogni istante), più di quanto non gli sia possibile celare o confondere.
[Ma si glorifica, immancabilmente (come indice di genio), la capacità di illustrare in maniera semplice “fatti” complessi.
Come se la complessità fosse un errore..come se non fosse vero (..più vero..? ..altrettanto vero..?) che i “fatti” complessi possono far luce sulla presunta semplicità degli altri..come se la complessità non fosse il risultato della somma prospettica (incalcolabilmente ampia e preziosa) di eventi semplici incomprimibili..]

|SF|