Archivi del mese: aprile 2013

Il Cavaliere Oscuro…secondo Christopher Nolan

Quando fu annunciato Batman Begins una cosa era certa:  fare peggio di ciò che aveva compiuto Schumacher sarebbe stato impossibile. Sia ben chiaro: i quattro film che lo hanno preceduto non hanno mai rappresentato una vera saga, non fornendo mai una continuità né a livello narrativo né a livello scritturale. Detto questo, come già ampiamente esplicato negli articoli precedenti, il disastro Schumacher è quantomeno colossale.

Ma cosa ci aspettavamo davvero da questo nuovo inizio? In che modo si poteva porre rimedio al declino cinematografico del cavaliere oscuro? A posteriori la risposta è scontata: come ha fatto Nolan. Non solo l’ambientazione realistica, non solo quel confine tra realtà e finzione viene sublimato splendidamente, ma il film è un tributo totale al fumetto, senza prenderne mai nulla se non la magia ed il fascino dei personaggi. Aprite un racconto qualsiasi e poi guardatevi un film della trilogia; li troverete talmente diversi da stentare a credere che si tratti dello stesso eroe. Ma in quel modo si completano, perché un conto è il fascino del fumetto, un conto è adattare due ore e mezzo di pellicola cercando di ampliare gli orizzonti visivi fornendo sensazioni ammalianti. La “serietà” cinematografica ed il dettaglio creativo che si nota dietro al tutto è ai limiti del possibile. Nulla è casuale, una sceneggiatura studiata nei minimi dettagli, ogni riferimento è ben celato e sciolinato con parsimonia, senza esagerare o uscire dai canoni cinematografici.

Personalmente stento a credere che Nolan non avesse intenzione fin da subito di creare una trilogia (come lui invece ha dichiarato), soprattutto perché alla fine dei due primi capitoli si rende scontata ed evidente l’uscita di un successivo. Batman Begins è il più debole dei tre, e non poteva essere altrimenti. Il film deve servire da introduzione, deve ricalcare i primi passi del cavaliere oscuro ed è qui che il regista hollywoodiano osa: mentre Burton lancia il supereroe direttamente nel pieno del suo splendore, nella nuova trilogia nulla viene lasciato all’immaginazione. Vita, morte e miracoli di Bruce Wayne.

Affermare che il primo capitolo sia il più debole non significa screditarlo, anzi. Si cerca soltanto di sottolineare, con un’evidenza anche troppo semplicistica, che raccontare le origini di Batman alle prese con Ra’s al Ghul ed il dottor Crane [Spaventapasseri] non può certo avere lo stesso imponente effetto che catapultarlo in un mondo minacciato da Joker prima e da Bane poi. Ed ecco che non parliamo di debolezza cinematografica, bensì di debolezza scenica, mirata e consona ai fini dell’insieme, che aiuta ad ampliare l’apogeo conclusivo col nemico più distruttivo e pericoloso di tutti: Bane.

Il tutto viene poi “smussato” da un cast di attori eccellente: da Christian Bale [Batman] a Gary Oldam [Jim Gordon], da Heath Ledger [Joker] a Tom Hardy [Bane]. Quest’ultimo fornisce, a mio avviso, la migliore interpretazione dell’intera saga [doppiaggio italiano a parte], anche migliore del Joker di Ledger, che rimane comunque inferiore all’interpretazione di Nicholson. Il tutto senza dimenticare Aaron Eckart nei panni di Harvey Dent/Due Facce e Anne Hathaway nei panni di Catwoman.

A questo punto non ci resta che metterci comodi e guardare nel dettaglio, uno ad uno, i film di una trilogia che ha cambiato per sempre il cinema d’Azione.

Stefano Cherubini


Il Mockumentary: quando il fittizio ha la pretesa del reale.

Il Falso documentario ormai non è più uno stile di ripresa o una scelta di messa in scena. E’ diventato con gli anni un genere vero e proprio che va a riorganizzare in base alla propria  poetica tutti i generi “canonici” (dramma, avventura, horror, fantascienza ecc..).

Gli eventi presenti in questa tipologia di film hanno la pretesa totale di essere presi per veri, e specialmente nel cinema dell’orrore questa veridicità è apostrofata in modo verbale: la locandina di Non aprite quella porta ( Tobe Hooper, 1974) ha una straordinaria trovata pubblicitaria che recita ” Non è solo un film, è accaduto realmente”.

Ma la vera illusione di realtà è data dalla presa diretta: un personaggio dell’immaginario diviene esso stesso un regista, un operatore che riprende gli accadimenti che potranno essere testimoniabili solo attraverso il suo operato. E’ come se l’istanza narrante non appartenesse più al regista (inteso come autore dell’opera) ma ad una sua creazione, che prende il sopravvento e travalica  la diegesi del film per andare a creare a sua volta un suo universo diegetico.

Siamo di fronte ad un’ideale mise en abyme , dove ad una iniziale narrazione se ne aggiunge un’altra che la amplifica e potenzia a livello esponenziale. E’ il caso folgorante ed atroce di Cannibal holocaust (Ruggero Deodato, 1979), che non fa altro che affidare la seconda parte del film al documentario girato dai giovani antropologi, ritrovato dopo la loro scomparsa.

Dopo tale macabro ritrovamento non siamo più in una narrazione al presente, ma assistiamo insieme ad altri personaggi del film alla visione di un documentario dell’orrore girato in precedenza. E’questo il meccanismo interessante messo in atto dal mockumentary: i personaggi dell’immaginario creato assistono allo stesso orrore dello spettatore. In qualche modo è come se lo spettatore diventasse parte integrante della diegesi del film, mentre i personaggi divengono parte del nostro mondo del reale. Non c’è più alcuna linea divisoria tra la pellicola ed il quotidiano: l’orrore provato dai protagonisti del film è speculare al nostro. E’ il guardare le stesse medesime immagini, e quindi per estensione essere nella stessa sala cinematografica, a creare la co-presenza  tra noi ed i personaggi.

Altro film emblema del genere è sicuramente The blair witch project (Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, 1999), che a differenza di Deodato ha il suo punto di forza nelle mancanze, nei buchi visivi che creano la dimensione orrorofica.

Non viene mostrato nessun ritrovamento del nastro, una didascalia lo annuncia e basta. Non mostrandoci nessun essere umano impegnato nella ricerca, si ha la sensazione di essere noi spettatori coloro che hanno ritrovato il filmino. Siamo noi che lo guardiamo per la prima volta, siamo noi i privilegiati.

L’altra mancanza fondamentale è l’orrore supposto e mai manifesto, un orrore che era esplicito ed intollerabile nel film di Deodato. Un documentario su una strega che non mostra mai la strega mette in atto un meccanismo fondamentale del cinema classico: il film non è altro che un continuo dialogo (ma anche incontro/scontro) tra ciò che è mostrato e ciò che è celato, tra ciò che è in campo e ciò che non lo è.

E’ la mancanza visiva dell’orrore a farci capire che tutto non è casuale,  c’è una scelta registica dietro che punta al fuori campo inquietante: questa consapevolezza permette di ristabilizzare  la linea di demarcazione tra la diegesi del film ed il mondo del quotidiano. Il film non è un documento reale, in quanto è orchestrato da un autore/demiurgo (il regista) che decide cosa far vedere e cosa no.

Deodato,con il suo controverso film, riesce meglio: non sceglie cosa mostrare o, più precisamente, sceglie di mostrare tutto ma nasconde tale scelta nella violenza delle immagini.

>Stefano Tibaldi<


Fight Club

Voto: 15/20

“Signori, benvenuti al Fight Club. Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club. Terza regola del Fight Club: se qualcuno grida basta, si accascia, è “spompato”, fine del combattimento. Quarta regola: si combatte solo due per volta. Quinta regola: un combattimento alla volta, ragazzi. Sesta regola: niente camicia, niente scarpe. Settima regola: i combattimenti durano per tutto il tempo necessario. Ottava ed ultima regola: se questa è la vostra prima sera al Fight Club… dovete combattere!”

1. La ricchezza espressiva del film cult di Fincher si riassume tutta nell’apogeo finale. Un film contraddittorio, come le prime due regole del Fight Club, fino alla resa dei conti nel deus ex machina conclusivo.

2. Vedi 1.

3. “Basta, fine del combattimento”. La descrizione di un frustrato della vita moderna. Problematico, insonne, costretto a rifugiarsi nei gruppi di ascolto per persone affette da malattie incurabili pur di trovare un po’ di comprensione. Il grido di battaglia come sfogo alienante, la distruzione fisica come metamorfosi, il duello rude e virile fino allo stremo, fino all’umiliazione, fino alla sconfitta della dignità umana….l’inizio di un gruppo sovversivo…

4. L’organizzazione scientifica prima di tutto. “Si combatte solo due per volta”, basta e avanza per delineare la follia pragmatica e fisica di un ritorno alle origini animalesche che si ha con il fight club. L’esaltazione della virilità come mezzo di conquista e di perdizione, di arroganza e di totalitarismo. Tyler Durden si riversa con furore nella realtà immaginifica del narratore, proiettandolo nella sua stessa visione.

5. Vedi 4.

6. Nudi, senza Nulla. Uno scontro tra anime spoglie e sull’orlo della morte.

7. Il tempo per rinascere, per sconfiggere i timori e l’alienazione in una metamorfosi che porta alla fortificazione dell’Io Uomo alla conquista del mondo.

8. “Dalla bocca mi uscivano parole di Tyler… E pensare che prima ero un bravo ragazzo…”

Fincher colleziona una piccola perla, non tanto per la tecnica realizzativa o per la straordinaria enfasi registica (che difatti non troviamo), quanto per l’originalità e la sagacia di una sceneggiatura portentosa, ricca e convincente da ogni punto di vista, che incastona ogni sua parte nel posto giusto, con coraggio e, forse, anche con qualche pretesa di troppo. Un piccolo gioiello nella carriera di un regista fin troppo sottovalutato…

Parigi, 25/04/2013

Stefano Cherubini


Le Iene

Voto 16/20

Ovvero “Come afferrare un genere, rivoltarlo, e indossarlo con disinvoltura”.

Prendete una giacca, invertite il lato interno con quello esterno e fingete di non esservene accorti.
Ora, allo stesso modo, provate a fingere di essere “solo” un regista emergente..provate a fingere di sviluppare l’intera trama di un film attorno ad una rapina..provate a fingere che le immagini e le vicende legate ai personaggi siano l’elemento portante dell’intera struttura..provate a fingere, in definitiva, di aver concepito un’Opera-di-Genere.
Quindi, con estrema disinvoltura, negate allo spettatore ogni riferimento esperienziale [visivo o auditivo] dell’evento narrativo principale (la rapina)..scomponete la successione cronologica degli eventi in sezioni episodiche arbitrariamente concatenate (invece che incatenate)..sbilanciate la dinamicità narrativa potenziale di ogni evento all’interno della dimensione dialogica, delegando alle parole e ai gesti, prima che alle immagini, il privilegio direzionale.
In altre parole: Le Iene. (Detto altrimenti: Quentin Tarantino).

Il film, partendo da quest’ottica, riesce ad assumere fin da subito un approccio “essenzialistico”, per favorire l’espressione immediata dei caratteri propulsivi di fondo. Questo è evidente nella scelta dei nomi (a ognuno, semplicemente, un colore), degli indumenti (gli stessi per tutti gli uomini reclutati nella banda), dei luoghi (fondamentalmente uno soltanto).
Un lavoro di riduzione degli elementi in gioco che riesce a conferire un elevato potere di suggestione mnemonica alle singole componenti risultanti, che emergono in maniera lampante dall’ampiezza complessiva dell’opera.

Tutto si concentra all’Interno, che si Esterna (ecco, appunto, il lato della giacca che viene invertito).
La storia trova completa evoluzione all’Interno dell’edificio nel quale si rifugiano i fuggiaschi dopo la rapina. La trama, nel suo procedere, si (ri)avvolge temporalmente all’Interno di momenti passati. La descrizione, soprattutto, aumenta di dettaglio nell’approssimarsi alla componente caratteriale Interna ai personaggi.

È in questo Modo (che racchiude un insieme di modalità confinanti) che prende vita il manifesto programmatico dell’emergente Quentin Tarantino. Manifesto che contiene già lo slancio figurale di un’intera filmografia, totalmente votata all’Implosione dei Generi.
[Mai, però, con intenzioni distruttive. È un processo incessante (e irreversibile) di co-involgimento passionale nei Generi, a partire da un (IN)sano desiderio di sprofondare nel Cinema. Un’ambizione totale di pervasione che, come naturale conseguenza (per la portata delle energie che mette in campo), inevitabilmente, de-struttura.]

P.S.
È solo una mia impressione, oppure nella fase finale dello stallo alla messicana i colpi di pistola non coincidono con la quantità e la direzione dei proiettili ricevuti dai singoli personaggi..!?

|SF|


La necrofilia e l’illusione come ricostituenti dell’Io frammentato: Vertigo ed Inception.

Tra Vertigo (La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958) ed Inception (Cristopher Nolan, 2010) esistono due fili conduttori considerevolmente interessanti.

Uno è estremo ed inquietante: la necrofilia. Nella pellicola hitchcockiana il protagonista, interpretato da James Stewart, è ossessionato dalla bionda Madeleine, morta in circostanze ambigue.

Camminando per strada, un giorno il nostro protagonista incontra Judy, una donna identica alla defunta ma mora (che scopriremo essere la stessa Madeleine). Stewart inizia a frequentarla, non in quanto Judy, ma in quanto copia di Madeleine; la donna, per soddisfare i desideri dell’amato, è costretta a ritrasformarsi in Madeleine.

L’uomo ama dunque il ricordo di una donna, un’ombra, non una donna in carne ed ossa; quella donna in carne ed ossa è obbligata a divenire uno spettro, un cadavere, per farsi amare nuovamente.

La ricostruzione di un soggetto frammentato avviene dunque attraverso la riconciliazione con un soggetto morto. Il processo in questione è determinato fortemente dalla presenza fantasmatica della figura di Madeleine, così come nel film di Nolan dal continuo ripresentarsi del fantasma psichico di Mal (la defunta moglie del protagonista interpretato da Leonardo Di Caprio).

Scottie (Stewart) come Cobb (Di Caprio) desidera unirsi con la donna morta o con il suo simulacro, nella misura in cui il simulacro è la condizione essenziale di rinascita dell’identità del protagonista così come del suo desiderio erotico.

Cobb è ossessionato dal senso di colpa per la morte di Mal, e questo non fa altro che far ritornare in vita la donna, anche se solo nella sua mente. Mal non è adorabile come lo era nel mondo reale: la deformazione effettuata dal subconscio di Cobb la rende pericolosa e mortale.

Quindi la trasformazione nel testo filmico di Nolan è inversa: se in Vertigo il ritorno dalla morte (apparente) di Madeleine è coincisa con l’eros, l’amore, in Inception il viaggio a ritroso da una morte (vera) ha concepito una creatura tormentata, folle, omicida e quindi legata al thanatos.

Per la ricostituzione dell’Io frammentato e disgregato è fondamentale un altro elemento: l’inganno. O meglio,l’illusione.

I percorsi che affrontano Scottie e Cobb sono speculari ed egualmente drammatici, in quanto la ricostruzione di entrambi i soggetti avviene per mezzo di un’illusione. I soggetti maschili trovano una nuova ragione per vivere dopo lo choc iniziale ed hanno nuovi orizzonti lavorativi; tuttavia entrambi mantengono intatti i propri punti deboli: uno le vertigini e l’altro l’incapacità di distinguere il reale dal mondo onirico.

L’illusione di cui sono vittime permette ai soggetti in questione di reintegrarsi con la vita e di ricostruire la propria soggettività, in quanto senza l’illusione il soggetto ferito o traumatizzato non potrebbe rinascere.

Scottie e Cobb possono nuovamente sentirsi parte del mondo, una parte attiva che agisce, anche se in realtà sono entrambi sotto l’influsso di un ente esterno: i soggetti non sono dunque attivi ma, tramite un incrocio di passività ed attività, trasformano la propria passività in un’attività derivante da qualcun altro (o da qualcos’altro).

Il soggetto passivo può riprendersi semplicemente perché riesce ad illudersi, ma l’illusione è generata, messa in scena, da un ente puramente esterno. Cobb e Scottie si muovono, agiscono, perché qualcuno o qualcosa glie lo dice, lo comanda in modo più o meno indiretto. Per ciò che concerne il film di Nolan, gli enti esterni potrebbero essere più di uno: l’illusione di un comando arriva da Mr. Saito, ma il vero ordine parte dal subconscio del protagonista e per estensione da Mal.

>Stefano Tibaldi<


Pulp Fiction

Voto 19/20

Pulp Fiction è Merda.

[Chiedo scusa previamente per il parallelismo azzardato che mi accingo a delineare..e per la premessa elaborata, pur necessaria].

Esiste, nell’ampio spettro delle potenzialità espressive, una porzione non irrilevante di modalità che percorrono traiettorie non direttamente finalizzate alla descrizione di un preciso approdo. Piuttosto, queste modalità percorrono vie di elusione del percorso stesso, allo scopo di definirlo tramite mancanze allusive. [Detto con maggiore specificità] il processo creativo “naturale” sarebbe quello di tracciare figure dalle quali emerga uno sfondo. Eppure, viceversa-ma-allo-stesso-modo, delimitare uno sfondo significa irrimediabilmente delimitare figure. Quindi, ne costituisce il complemento alternativo.
La differenza relazionale sta nel fatto che la figura, come Intenzione primaria CONTIENE il significato, mentre lo sfondo EFFONDE Significatività.
La differenza sostanziale, invece, non sussiste. Entrambi Significano.

Pulp Fiction è Merda nel senso più puro e nobile della funzione evacuativa.
Innanzitutto come “mucchio di materia” (citando la definizione nell’incipit del film stesso). Ma non solo.
Le feci alludono all’alimento, che è la figura, e ne costituiscono lo sfondo diretto. Confondono e “sporcano” l’apparente univocità funzionale del cibo, sottolineando il pari statuto ontologico dell’aspetto espulsivo accanto a quello assimilativo.
Tarantino rivela attraverso questo proposito la ricerca complessa di una modalità di approccio alternativa alla narrazione: delineare il “mucchio di materia” (proprio dello Sfondo-come-Categoria) attraverso le figure.
Il risultato ammirevole è quello di figure-di-sfondo che concorrono a tracciare l’immagine di uno sfondo-figurale.

I legami e i rimandi tra le varie vicende episodiche dell’opera non sono nulla più che una circostanza accidentale. Non intervengono per ridefinire il mucchio caotico, il de-ordine..ma lo rafforzano, offrendo all’a-razionalità (come pasto sacrificale) “Tutto il Coincidente”. In virtù di questo principio, Tensioni e Intenzioni di natura a-razionale dirigono i personaggi da un luogo all’altro, da un dialogo all’altro, da un momento della narrazione all’altro. A partire dalla celeberrima valigetta, della quale non viene mai svelato il contenuto, pur costituendo il nucleo orbitale dell’intero svolgimento
[Il termine McGuffin, coniato da Hitchcock, aiuta a definire lucidamente questa tipologia di espedienti narrativi].
Ancora una volta, lo sfondo, la materia assente, “l’espulso”, detiene la centralità dell’Opera.
L’intreccio è un gioco stilistico, non più strutturale.
Non è un caso infatti se ogni scena è una costruzione memorabile, anche decontestualizzata dal complesso dell’opera.

In pratica, Tarantino realizza un Capolavoro semplicemente tracciando dei buchi nel vuoto. Con quei buchi allude ad una superficie (una sorta di groviera concettuale) che, a sua volta, ha il solo scopo di costituire da sfondo per quelle figure assenti (i buchi).
Getta..Smuove..Agita..Scioglie e Aggroviglia..[ad libitum].
Nulla di più Viscerale.

|SF|


Il Cavaliere Oscuro…secondo Joel Schumacher

…Un salto nel buio, profondissimo, lontanissimo, nella perdizione di un cinema troppo brutto per essere reale. Quasi una pietra tombale sulla leggenda del cavaliere oscuro. Un affronto desolante, sconsolante, effimero e bugiardo. Non si riesce nemmeno a distinguere il limite tra il ridicolo e il patetico…

…e se nell’articolo sul batman “bartoniano” avevamo esaltato le doti cinematografiche della nostra leggenda, in questo caso Schumacher le sbriciola all’istante riuscendo a trasformarlo in una marionetta degna di uno spettacolo di Mangiafuoco; basterebbe usare le parole di Collodi nel descrivere il burattinaio per renderci conto di quanto siano desolanti le due pellicole: “un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.”

Non funziona nulla [o quasi]: tempi registici, fotografia, costumi, sceneggiatura…e se nel primo capitolo la coppia CarreyLee Jones incarna perfettamente lo splendido duo Enigmista-Due Facce, nel secondo, la scelta dei nemici è imbarazzante. Mr. Freeze e Poison Ivy: sinceramente, e lo dico a malincuore, era difficile trovare due personaggi così deboli all’interno di una saga così portentosa…

…ma il dramma non finisce qui: mentre in Batman Forever si osserva un quasi sufficiente Val Kilmer nei panni dell’uomo pipistrello, in Batman & Robin il crollo è fulmineo. E mentre rimaniamo incantati dall’imbarazzante prova di Clooney, ecco che arriva il colpo di grazia, il Dio di tutti i colpi di grazia: nonostante fossimo già abituati alla crudeltà masochista inflitta dai costumini di Robin, ecco presentarsi, nel mezzo di un mega scontro degno del “Maciste all’Inferno” del 1962, uno dei più brutti personaggi della storia del Cinema: Batgirl. Inutile dire come la scena diventi immensamente patetica.

E vi lasciamo così, sperando che almeno voi vi siate risparmiati il calvario filmico. Ma non temete, Nolan sta arrivando…

Batman Forever –> Voto: 52%

Batman & Robin –> Voto: 26%

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Tommy Lee Jones e Jim Carrey

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Un fallimento totale

Stefano Cherubini


Film d’autore/Film di genere: esiste una differenza di qualità?

Tutta la critica (o quasi) è solita attribuire l’artistico ed il geniale a film cosiddetti “d’autore”, riconoscendo invece alle pellicole di genere il loro essere commerciali e largamente fruibili al grande pubblico. Questo atteggiamento obsoleto ed ingiustificato deve essere assolutamente superato se si vuole avere veramente una capacità critica super partes e soprattutto capace di individuare le qualità intrinseche del testo filmico indipendentemente dai temi (e quindi dai generi) trattati.

Il cinema d’autore non è l’arte pura, così come il cinema di genere non rappresenta il profitto e l’industria. Non bisogna innanzitutto dimenticare che il cinema d’autore è anch’esso un genere, e non sempre dei più interessanti e qualitativamente validi.

Quanti film ritenuti d’autore presentano gli stessi stilemi, clichés e standardizzazioni individuabili nei film horror, nei western, nei noir o nelle commedie romantiche? Eppure tante (troppe) volte viene decantata l’originalità di alcune pellicole autoriali, quando le loro tematiche e talvolta le stesse tipologie di messa in scena erano già presenti in altri testi filmici.

Allora perché mai bisogna considerare così testardamente il film d’autore superiore a quello di genere se presenta le stesse caratteristiche, talvolta anche in una forma più noiosa e meno affascinante?

Se fosse vera ed inconfutabile tale idea, la maggior parte dei grandi capolavori della storia del cinema andrebbero considerati dei “semplici” film commerciali: Nosferatu di Murnau (horror), Il grande dittatore di Chaplin (commedia o parodia), Blade runner di Ridley Scott (noir fantascientifico), Fino all’ultimo respiro di Godard (B movie noir) e si potrebbe continuare potenzialmente all’infinito.

Inoltre, come il caso di Blade runner, a creare il grande film è l’intreccio di più generi, che vanno a costruire un sotto-testo originale ed assolutamente stimolante all’interno dell’immaginario cinematografico.

In ultima analisi, molti degli autori che hanno reso grande il cinema non hanno fatto altro che girare film di genere: basta pensare ad Alfred Hitchcock o a Fritz Lang. Le loro opere sono dei film di genere e d’autore, alcune sono dei capolavori ed altre meno interessanti (e ci sono anche brutti film).

Ciò che è importante  sottolineare è che l’immaginario prodotto da questi due autori sopracitati è ineluttabilmente “intrappolato” all’interno di uno o più generi.

Nel cinema moderno/contemporaneo la simbiosi totale tra autore/genere la ritroviamo fortemente in Cristopher Nolan, che è riuscito a dare un’impronta personale anche ad un personaggio “commerciale” e fumettistico come Batman.

Il cinema, in ogni epoca, non ha fatto altro che mostrarci una cosa banale ma non intercettata o compresa da tutti: un film di genere può essere un grande film, un film personale e quindi d’autore una immensa e noiosa delusione.

>Stefano Tibaldi<


Django Unchained

Voto 18/20

Ha vinto di nuovo lui.
Nel secolare incontro (incontro come “contatto” ma anche come “scontro”) fra autore e spettatore, Tarantino riesce, ancora un volta, a sbilanciare verso l’evento creativo il potere direzionale.
Ha compreso perfettamente che lo spettatore, in generale, prima di ogni altro aspetto qualificante, è un (A)spettatore.
Gran parte del risultato soggettivo di un film deriva dalle specifiche modalità di relazione tra il materiale filmico e il complesso sistema di aspettative pregiudiziali circa l’opera stessa.
Non si tratta di affermare, banalmente, che un film appaga lo spettatore nella misura in cui ne appaga l’aspettativa (e viceversa).
Si tratta di riconoscere che vi è una tendenza naturale a far rientrare un film (un’opera d’arte) nelle proprie aspettative pre-percettive in base ad assoluti di genere che vanno dal tema trattato, alla proposta stilistica, alle espressioni degli attori, alla biografia del regista. Ma vi è allo stesso modo un complesso sistema di aspettative (molto più fluide) circa le caratteristiche potenziali necessarie ad un’opera affinché possa deludere le nostre aspettative in maniera con-vincente.
È straordinaria, da questo punto di vista, la capacità dimostrata da Tarantino, in questo film, di gestire e manipolare questa materiale impalpabile.

Non è la prima volta che questo regista supera le due ore.
Era accaduto nel caso di Pulp Fiction, in Jackie Brown, così come nel recente Bastardi senza gloria.
In questo caso, però, il minutaggio è nettamente prossimo alle tre ore ed è totalmente funzionale allo sviluppo iperbolico degli Eventi, consentendo un’approssimazione progressiva del ritmo strutturale da un inatteso “Andante” a un “Presto con fuoco” [letteralmente].
Senza dubbio ci sono, fin dall’inizio, molte componenti essenziali del suo linguaggio registico, dai dialoghi raffinati e coinvolgenti, al substrato culturale di riferimenti. Trabocca, come al solito, di Citazioni, mutuate soprattutto dal mondo del Cinema, che fornisce il pretesto alla creazione dell’opera stessa attraverso il riadattamento del personaggio Django elaborato da Corbucci nel ’66 (ma il Cinema non è l’unica fonte, se pensiamo alla citazione della Brunilde Wagneriana!).
Eppure, per quasi tutta la prima parte, fino al raggiungimento del vertice conflittuale tra i personaggi, ci si trova ad osservare una sorta di finzione biografica, piuttosto atipica e vagamente autoironica, nella quale il regista riesce addirittura, a tratti, ad eclissare la sua presenza. Non che manchi Tarantino..ma se ne percepisce con parzialità l’intervento.
È inevitabile, per chi lo ha conosciuto e apprezzato, pensare e dirsi durante la visione
-Sì, va bene..! Però..Più Tarantino! Più Tarantino!!-.
Intanto, i personaggi si addensano, le interazioni iniziano a tendersi, il protagonista mostra presagi malcelati di un’esplosività irrefrenabile. Quindi, nel momento esatto in cui la vicenda sembra avviarsi verso uno scioglimento straordinariamente pacifico, basta un solo pretesto narrativo, delizioso, per far convergere in un solo punto tutte le pulsioni latenti dei Personaggi, dell’Opera e del suo Autore. Giunge allora, stavolta inattesa, l’estasi Tarantiniana, con tutte le sue irrinunciabili esasperazioni (narrative, caratteriali, anatomico-fisiologiche!).

Mi mancherà, in questo film, soltanto un Incipit di maggior spessore, Tarantiniano nel senso più vizioso del termine.
È la pretesa voluttuosa di un ulteriore frammento memorabile nell’ennesima opera memorabile di questa memorabile filmografia.

|SF|


Il Cavaliere Oscuro…secondo Tim Burton

L’insostenibile leggerezza nell’essere un supereroe non ha mai sposato la complessità del cinema. Potrei stare ore a raccontarvi delle innumerevoli gesta dell’umanoide verdastro o di quel “simpaticone” di Stark, o di quanto sia affascinante la donna invisibile fino ad arrivare all’inspiegabile motivo per il quale a Clark Kent bastino un paio di occhiali per non farsi più riconoscere. Bhe…magari offenderò la vostra sensibilità riguardo i vostri eroi preferiti, ma gli eventi che hanno portato i fumetti sul grande schermo mi hanno sempre fatto provare una tristezza infinita…e non per la realizzazione dei film, per la scarsa qualità tecnica, o chissà per quali mirabolanti ragioni cinematografiche [basti pensare a The Avengers…visto in 3D isens…portentoso…si, ma cosa ti è rimasto?…Il Nulla…], ma semplicemente perché nessuno riesce mai a capire che non è sufficiente estrapolare supereroe e antieroe per fare un buon lavoro. Non basta. Cosi come quando si traspone un libro, è esattamente un tentativo di riprodurre lo stesso universo attraverso due mezzi di comunicazione totalmente differenti…ed ecco che i personaggi vanno completamente reinventati, ricostruiti, riadattati e (se necessario) snaturati. Non stai facendo un “fottuto” film per soddisfare qualche ragazzino che colleziona l’intera collana di fumetti da quando aveva cinque anni, ma stai realizzando un’opera a sé stante, un’opera che deve godere di un apprezzamento globale, condivisa anche da chi non ha mai sentito parlare della criptonite o del mitico zio Ben…

…eccezion fatta per il nostro amato Cavaliere Oscuro. Eh già…quando nel 1989 Tim Burton diresse il primo Batman, si percepiva fin da subito la facilità con la quale il nostro beniamino, assieme ai suoi stupefacenti antieroi, si prestassero alle telecamere. Oscurità, teatralità, inganno, ma, soprattutto, Realtà…è qualcosa che sappiamo bene come non appartenga al nostro mondo, ma che stuzzica al tempo stesso l’idea che possa farlo, attraversando quella soglia sulla quale rimane sempre in bilico. Fantasia o Realtà, Finzione o Verità…il dubbio ci assale…un [Super]Eroe veritiero, puro, possibilista e umano, anche fin troppo!

Probabilmente Burton, dei tre registi che se ne sono occupati, è quello che ha osato di meno, quello che è restato più legato alla vena fumettistica del personaggio, avendo compreso chiaramente che Batman era stato confezionato ad arte per qualsiasi tipo di trasposizione…e allora inserisci dentro un Nicholson da fantascienza nella parte di Jocker, un ottimo Michael Keaton nella parte dell’uomo pipistrello ed il piatto è servito. Atmosfera, azione, potenza caratteriale e psicologica che sprizza in ogni dove…minimo sforzo, massimo risultato…insomma, il nostro Tim in tutto il suo splendore…

…1992. Batman: Il Ritorno. Ed è di nuovo centro. Altro storico nemico: Il Pinguino. Altra prova d’attore straordinaria, questa volta di Danny DeVito. Un film ancora più fumettistico del primo, con l’arrivo di Catwoman, interpretata dall’ottima Michelle Pfiffer. La creatività al servizio del Cavaliere Oscuro trova in questo secondo episodio il suo massimo splendore. Chiaro, Fulgido e Cristallino. Fresco ed Incisivo…diciamolo chiaramente: forse la cima artistica di Burton, regista fin troppo sopravvalutato.

L’avventura del regista statunitense [fortunatamente] si arrestò qui, anche perché di nemici capaci di trascinare lo schermo in un ambiente come quello creato per questi due episodi probabilmente non ce ne sono. Sia chiaro, ne esistono di straordinari, anche migliori di un Jocker o di un Pinguino…ma che arrivino così vicini a quel mondo fumettistico “burtoniano” non ce ne sono, e Burton lo sapeva benissimo. Tant’è che passò il testimone [ahimè] a Joel Schumacher, limitandosi a produrne il seguito…ma questa è un’altra storia, che ovviamente racconteremo con molto piacere…

Batman  –> Voto: 67%

Batman: Il Ritorno  –> Voto: 70%

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De Vito e Nicholson perfetti nei ruoli dei più famosi antagonisti di Batman

Estrema fedeltà alle ambientazioni fumettistiche

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Burton, come al solito, osa pochissimo

Troppo facile non curarsi per nulla della nascita del Cavaliere Oscuro

Stefano Cherubini