Archivi del mese: aprile 2014

May

Le psicosi adolescenziali e le sue più tetre manifestazioni si incarnano perfettamente nel film di Lucky McKee. Precisiamo immediatamente: questo interessante regista fa un horror assolutamente poetico, a tratti brutale (vedi The woman) ma mai banale e stereotipato.

Il suo cinema è innanzitutto cinema che fa dell’horror un mezzo per raccontare i disagi della società e soprattutto degli adolescenti che lottano con i mostri della loro mente.

Questo May del 2002 è un gioiellino che innanzitutto funziona grazie alla sua sua inquietante e sfortunata protagonista: May appunto. E’ una ragazza strabica che ha come unica sua amica una bambola modellata artigianalmente dalla madre. Questa bambola sembra essere la versione homunculus di May.

E’ probabilmente il suo vero aspetto: mostruoso, malefico e psicotico. Questa bambola è in una teca di vetro: non è un caso che una volta che la teca verrà distrutta e la bambola fatta in pezzi la follia tenuta difficilmente a bada straborderà nella realtà esterna.

Per compensare la perdita del suo feticcio simil/antropomorfo, May ricomporrà un bambola con pezzi di corpi umani che lei considera perfetti, in modo da creare un essere perfetto in grado di amarla sia come amica/o che come compagna/o (quasi subito il regista mette in mostra l tendenza bisessuale della ragazza), andando a creare una sorta di mostro di Frankenstein androgino.

Due scene veramente egregie da segnalare: la rottura della bambola per opera di una masnada di bambini non vedenti e la scena finale.

Voto 80%

 

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Regia.

Interpretazione della protagonista.

Le due scene sopracitate.

 

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Narrazione e dialoghi sono, in alcuni momenti, un po’ troppo lenti e sfiorano la stucchevolezza.

 

>Stefano Tibaldi<

 


Elephant

“Un giorno qualunque di scuola superiore. Peccato che non lo è.”

Quella di Gus Van Sant è l’opera del “non-spiegato”Elephant
Una realtà setacciata direttamente dai protagonisti del film. Un collage ripetuto di tanti sguardi specifici sotto l’uso della steadycam.
Il risultato è automatico, l’approccio realistico determina una narrazione diretta degli eventi che si susseguiranno nell’arco di questa sola ed unica giornata. La realtà che ci appare è prismatica, frammentata dalle tante visioni. Sullo schermo sono proiettate sempre le stesse scene a seconda dei singoli punti di vista.
Queste differenti soggettive suggeriscono un chiaro isolamento delle varie identità dei personaggi che si presentano solo uno alla volta.
L’incredulità è il sentimento comune a tutta la durata del film (..e anche dopo l’epilogo continueremo a non capire in che modo una mattinata qualunque possa diventare teatro di una sanguinosa strage in così breve tempo).
Ci assale l’inspiegabilità del “non-visto”, l’incomprensibile follia di un progetto simile che in soli 80 minuti vede contrapporsi al minimalismo di azioni quotidiane un’agghiacciante risvolto.
“Elephant” è paragonabile ad una grande fotografia-documentario e noi siamo gli spettatori dei piccoli dettagli che vengono fuori con l’accurato uso di un super-zoom. La fotografia si regge su continui cambi di intensità in linea con i cambi di luogo, inquadrature ed atmosfere (..sebbene ci siano molte costanti visive: la natura, il giallo..) Elephant_1
Il tempo è stagnante, connesso all’incomunicabilità propria di tutti i protagonisti. La telecamera a spalla segue tutte le figure stereotipate (..la sfigata, il ragazzo col padre alcolizzato, il gruppo di amiche bulimiche) senza tregua, di spalle, con l’uso di interminabili piani-sequenza e silenzi-dialoghi quasi insostenibili (..un chiaro esempio è la battuta finale con la quale si chiude brutalmente il film).
La sonorità della pellicola (..che non ha una vera e propria colonna sonora) è l’effetto libero del contesto narrativo. Le sinfonie di Beethoven emergono come fossero i pensieri dei protagonisti tradotti in note (..soprattutto di uno dei carnefici, appassionato di musica: è come se i toni angoscianti della “Sonata al Chiaro di Luna” fossero il suo motivetto, la prefigurazione della tragedia che sta per compiersi). Elephant
I due giovani assassini, non hanno nessun trattamento speciale (..siamo a conoscenza solo dei loro interessi: musica, videogames, armi). Sono freddi, come la macchina da presa che guarda tutti indistintamente..
..come l’occhio impassibile di chi finge di non vedere un elefante dentro una stanza.

E poi
..il finale.
“Ambarabà ciccì coccò..”

 

Voto: 84%

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– Finale
– Piani-sequenza
– Beethoven
– Steadycam

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– La “banalità” del disagio giovanile
– Lo stupore suscitato dai tecnicismi cinematografici (..steadycam, piani-sequenza, ecc..) potrebbe allontanare il coinvolgimento concettuale ed una probabile identificazione dello spettatore

Sonia Colavita|

 


Noah

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Eccoli, ancora una volta.
Schiere di “No”, in marcia.

Ho POCO a cuore l’opera e MOLTO il Regista.
Ma ENORMEMENTE a cuore l’equivoco insanabile tra Critica e criticare.

O si ha il coraggio e la capacità di affermare che un film sul Diluvio Universale non è realizzabile
(/non è realizzabile in maniera convincente)..
..oppure, se lo si ritiene possibile, si DEVE spiegare, punto per punto, in che modo era possibile Fare Meglio.
Il resto, tutto il resto, è capriccio linguistico, idealismo comatoso, brusio di fondo.

Nella sfera del linguaggio letterario [origine, mezzo e approdo del Critico] tutto sembra lecito.
Quindi ipotizzare la possibilità che un film contenga tutti gli estremi ma che risulti al contempo equilibrato.
Quindi dire di una stessa opera [leggasi: The Fountain] che ha “troppo” e “troppo poco”.
Quindi la Densità chiamata Caos (e viceversa), l’Intensità detta Lentezza (e viceversa), l’Ambizioso definito Pretenzioso (e viceversa)..a seconda delle esigenze.
Cumuli di parole a erigere un muro insormontabile di distanza dall’assunzione di responsabilità rispetto alla natura autenticamente violenta (perché specifica, particolare, concreta) delle Scelte [origine, mezzo e approdo di ogni Autore].

Nel realizzare DEVO scegliere.
E se scelgo, limito..tolgo.
E devo togliere sempre infinitamente più di quanto posso accogliere.
E di quel poco (eppure non-poco) che accolgo devo considerare le reciproche relazioni.
Un esempio specifico:
vedendo I Vigilanti in Noah è difficile non provare, nell’immediato, un senso di stupore ambivalente.
Poi, mentre lo sguardo si abitua [sarebbe più giusto dire che si deabitua alla loro non-presenza], ci si dovrebbe chiedere, banalmente, “Perché!?”.
Perché ha SCELTO quei Giganti di pietra?
Allora torna utile l’analisi di partenza. Se un film sul Diluvio è possibile, e si desidera realizzarlo, non si può non considerare le componenti essenziali di quella narrazione. Tra queste, la costruzione dell’arca e il problema della sua rappresentazione.
I gruppi di soluzioni disponibili non sembrano molti:
-Farla costruire interamente a Noè e alla sua famiglia
-Far intervenire una comunità più ampia di persone
-Introdurre una componente sovrannaturale
Ogni soluzione con i suoi limiti e le sue potenzialità espressive.

Probabilmente, la Scelta fatta da Aronofsky si inquadra all’interno di una SovraScelta Drammatizzante (la lotta con i discendenti di Caino, i conflitti famigliari, i turbamenti interiori) nei limiti di un soggetto che, in sé, parrebbe contenere un unico, nonché prevedibile, evento tensivo: il Diluvio, appunto.

In generale, comunque, non si può fingere di aver assistito a poco o a nulla!
Aronofsky ci offre un Noè perfettamente coerente con la narrazione biblica eppure profondamente rinnovato da una caratterizzazione inattesa, ma incredibilmente verosimile..
..reincarnando le ragioni narrative in una Domanda essenziale: l’Umanità merita di essere salvata?

Ciò che avrei cambiato di questo film è situato quasi interamente nei primi e negli ultimi minuti.
Nei primi bastava inserire solo la premonizione, senza troppe dispersioni (ma ripensando completamente il risultato visivo del serpente).  Gli ultimi (con la loro carica estrema di “luminosismi”) non dovevano proprio esserci.
Il MIO Noah parte dalla limpida presa di coscienza e termina con il dubbio lancinante (quel coltello sollevato al di sopra delle due nenonate gemelle).

Non faccio alcuna fatica ad ammettere che esistano film migliori (Benvenuti nell’Ovvio).
Neppure a immaginare una maggior cura realizzativa in quest’opera.
Faccio senz’altro qualche fatica in più nel sospettare che sia possibile un film complessivamente migliore sul Diluvio Universale.
Ma attendo, con fiducia, chiunque sarà in grado di proporre, oltre a un “No”, un “Ecco come”.

Risultato: 80%

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Come prendere una storia che non ha più nulla da dire e insegnarle a parlare un nuovo linguaggio


Primi e ultimi minuti, tout court
Caratterizzazione statica e forzata della maggior parte dei personaggi (su tutti, i figli di Noè)

|SF|


Il capitale umano

Di certo non si può dire la svolta poetico/stilistica di Paolo Virzì non abbia portato nuova e fresca linfa alla sua filmografia che forse stava giungendo al giro di boa.

Quest’ultima opera è uno specchio crudele ma veritiero dell’Italia dei nostri tempi: una nazione la cui autostima, grandezza e credibilità sono state messe a dura prova dalla crisi. I personaggi che si muovono nell’universo simil-noir creato da Virzì sono tutti vittime sacrificali del fardello pestifero della tremenda crisi.

Nessuno si salva e nessuno dunque può rimanere immacolato in un miasma di ansie e paure che. volenti o nolenti; ci imbrigliano e ci fanno reagire di conseguenza.

E’ quello che fanno tutte le maschere grottesche ma assolutamente riuscitissime che popolano il film: ognuno reagisce per un effetto causale e la reazione determina altri azioni che pian piano ci offrono tutto il quadro della vicenda. Si perché l’intreccio non è subito chiaro fin dal principio (cosa curiosa e oserei dire sperimentale per il nostro cinema mainstream).

Il film si apre splendidamente con una carrellata in dolly che finisce per inquadrare un cameriere. All’apparenza costui sembra un personaggio di contorno, inutile ma di lì a poco si scoprirà essere un mac guffin (nella pura accezione hitchcockiana) antropomorfo che fungerà da vettore drammatico per tutti o quasi i destini dei personaggi.

La narrazione è divisa in quattro capitoli, ma è solo l’ultimo di questi che ci fa procedere nella narrazione; nella misura in cui gli altri tre non sono altro che gli stessi eventi ma visti da un punto soggettivo di volta in volta differente. E la scelta quasi avanguardistica (conoscendo il suo cinema da sempre lineare) di Virzì è assolutamente funzionale per innescare immediatamente i processi cognitivi tanto cari a David Bordwell: lo spettatore, ad ogni ri-narrazione, deve rivedere e rifare le proprie congetture per arrivare al noccciolo della vicenda. E’ chiaro che l’elemento suspence è arriccchito ad ogni nuovo inizio della vicenda.

 

Voto: 78 %

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La scelta narrativa.

La volontà di rinnovare la propria poetica autoriale parlando dell’Italia di oggi senza sottolineare il lato comico.

La regia.

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Gli attori non sono sempre all’altezza della situazione.

Ci sono forse troppe pause che spezzano il ritmo.

 

>Stefano Tibaldi<

 

 


A Serbian Film

La pornografia non è più il “Paese delle Meraviglie”. 1978305_644654812271685_1017916087_o
Il film si spinge a livelli di repulsione-rabbia-eccitazione (più teorica che visiva) assolutamente aberranti.
Un progetto sui generis assemblato attraverso una messa in scena claustrofobica che rinchiude il protagonista-spettatore dentro la gabbia di un pavimento a scacchi bianco e nero.
Luci calde e soffuse, arricchite da una fotografia mutevole e adeguatamente sporca (..i lunghi corridoi spogli che Milos percorre inconsapevole di ciò che accadrà, seguito da operatori stranamente silenziosi.)
Una musica energica ma carica di tensione accompagna i numerosi picchi di impressionabilità 965892_644654788938354_1273118511_o
(..dalle prime meta-riprese fino all’apice rintracciabile nella sequenza di violenza su un feto appena partorito.)
Siamo di fronte ad un meta-film dalla sceneggiatura ben studiata, in cui si incastrano due piani temporali: passato e presente nella maniera più caotica possibile (..i flashback costruiscono la storia di Milos). 1890626_644654858938347_1204285385_o
Il protagonista (e noi con lui) sprofonda in un inferno allucinante, costretto (da marionetta drogata quale è diventato) a compiere atrocità che costituiscono proprio il filo su cui si regge tutto il film: il sottile confine tra etico e immorale..
..ovvero: Lo stritolamento totale del nucleo familiare.
“ Un piccolo numero di monaci durante l’estate mette sette caproni adulti in una stalla. Li lasciano lì per un mese, finché le palle non gli diventano grosse come meloni. Quando sono troppo eccitati, iniziano a scoparsi l’uno con l’altro. I monaci raccolgono il loro sperma sanguinolento, seccato dalle loro palle e lo mescolano con il latte; questo rende la pasta del pane migliore. Tu sei un caprone, Milos. Io sono il tuo monaco.”
Il messaggio dell’Opera è chiaro, diretto e catartico
..è un’esperienza dalla quale ne usciamo mentalmente violentati.
Questo è ciò che succede quando qualcosa/qualcuno s’impossessa di una qualche presunta superiorità (Spasojević in questo caso si riferisce alla condizione politica della Serbia facendo sì che il film sia portatore di una critica sociale) e ci impone (drogandoci!) di fare quello che non vogliamo fare (..né che faremmo mai!).
Questa è la spiegazione alle scene di pedofilia, stupri brutali, infanticidio, necrofilia e suicidio collettivo..
..dobbiamo sentire la violenza per poterla capire.


Voto: 85%

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– Srđan Todorović
– Scenografie
– Inquadrature
– Epilogo
– Non è un film per tutti

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– Disorientamento nell’identificazione dei piani temporali
(..sebbene sia appropriato e connesso alle sensazioni del protagonista sotto l’effetto di una droga che deturpa la sua integrità psico-fisica).
– La scena della “penetrazione oculare”
(..potrebbe suscitare qualche risata e rompere la tragicità dell’atmosfera).
– Non è un film per tutti

Sonia Colavita|

 


Le 5 cagne (più cagne) di Hollywood

Boris

Subito una precisazione: prima che la Boldrini ci faccia chiudere il nostro blog con l’accusa di maschilismo “spinto” , chiariamo subito che il termine “cagna” è una chiara citazione alla serie cult Boris. Chiunque di voi (spero molti) abbia visto la splendida serie TV made in Italy, non potrà non ricordarsi l’appellativo di “cagna maledetta” usato da René Ferretti per descrivere la sua “meravigliosa” attrice di punta. E allora, in una speciale classifica (del tutto personale), ripercorriamo brevemente quali attrici odierne sono degne di ricevere questo appellativo:

5) Sandra Bullock: Ebbene sì, la Sandrona nazionale rientra, seppur al quinto posto, nella nostra speciale classifica. Ma la domanda è: solo al quinto posto? Bhe, bisogna pur darle atto di aver vinto l’Oscar, ma non scordiamo che è stata l’unica attrice nella storia a vincere, nello stesso anno, Oscar e Razzie. Mica roba da poco!!! In tutti i casi, calcisticamente parlando, l’Oscar alla Bullock può essere paragonato agli europei vinti dalla Grecia o ad un campionato regolare vinto dalla Juventus (No…scusate!!! In quest’ultimo caso non ce ne sono stati).

4) Drew Barrymore: Tecnicamente, forse, la peggiore nella classifica, ma va ringraziata per aver abbandonato le scene, almeno a grandi livelli, da qualche anno. Dite la verità, neanche la ricordavate più.

3) Michelle Rodriguez: E qui, non me ne vogliano i fans di Fast & Furios, si entra davvero nel trash vero e proprio. L’espressività di questa attrice è pari a quella di un bradipo in letargo. Ahimé, nel suo curriculum figura anche un film con James Cameron (Avatar). Perfetta invece per lo splatter di Rodriguez: Machete.

2) Julianne Moore: Guardate Il Silenzio degli Innocenti e, subito dopo, guardate Hannibal: vi sarà chiaro in un istante perché la Moore compaia in questa classifica.

1) Charlotte Gainsbourg: E sul gradino più alto del podio troviamo lei, la “cagna maledetta”, colei che non solo è incapace, ma vanta una filmografia che sognerebbe qualsiasi attrice talentuosa di questo mondo. Inespressiva ed apatica, personalmente non sono mai riuscito a coglierle un sorriso sul viso. A sua discolpa, dobbiamo aggiungere che la sua “gloriosa” filmografia è dovuta in larga parte al rapporto con Lars Von Trier, che misteriosamente la mette in cima alla lista di ogni suo film.

Fuori categoria: Jessica Alba. Chiedo scusa in anticipo, ma non me la sono sentita di metterla in classifica. La sua straordinaria bellezza giustifica, in parte, le sue molte mancanze.

Oscar alla peggior attrice straniera: Asia Argento. Se fosse stata americana avrebbe meritato il quinto, il quarto, il terzo, il secondo ed il primo posto, senza ombra di dubbio. Figlia d’arte: ma di quale arte?? Considerando anche il padre…

…state pure tranquilli. Arriverà anche la controparte maschile. Conoscerete presto quali sono i nostri cani preferiti.

Stefano Cherubini

 


The Human Centipede

FIRST SEQUENCE

Nel segno di un clima malato e psicologicamente disturbante, il primo episodio (..della catena..) si presenta come l’esperimento ben riuscito di un genere innovativo: uno splatter ontologico che (etimologicamente parlando) rifiuta la reazione di ripugnanza visiva e preferisce colpire l’Essere dello spettatore con una concettualità molto singolare.
La depravazione umana mina la stabilità psico-fisica di chi guarda e genera un processo di identificazione possibile anche grazie alla più totale assenza di caratterizzazione delle vittime (sappiamo infatti poco e niente dei tre malcapitati, questo significa che potrebbero essere chiunque). the-human-centipede-the-first-sequence-191-e1288211040148-700x342
I contrasti scenografici tentano di far presagire l’inquietudine dell’atmosfera e sono identificabili già nelle prime sequenze in cui alla bella casa del dottore desolata nel bosco e il giardino super curato si contrappone (nello stesso giardino) l’inquadratura di una tomba con scritto: “Al mio caro tri-cane..” human-centipede1Oppure, gli interni lussuosi della villa che mascherano in realtà la zona sotterranea
dello scantinato-sala-di-tortura (..che diventa inaccessibile perfino ai poliziotti, anche quando sembra che tutto stia finalmente per risolversi). La confusione iniziale è tale da disorientare il destino e la comprensione del progetto del dottore, fin quando non assistiamo (da buone cavie) alla spiegazione scientifica e dettagliata del professore, incurante delle urla e del pianto straziante delle tre vittime. Da questo momento in poi, la visione diventa una perenne violenza mentale, la dignità dei tre martiri (ormai costretti in un corpo solo) è confinata entro certi obblighi e azioni.
Sebbene ci siano comunque ben due anelli della catena (su tre, nonostante la terza vittima sia pressoché inesistente) che tentano di ribellarsi al progetto, non vi è possibilità di salvezza. still3(3)
Saranno proprio i due mancati eroi a patire le brutalità più estreme: comportarsi come un cane, mangiare dalla ciotola, cibarsi degli escrementi dell’altro, suicidarsi e aspettare la morte.

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– Dieter Laser
– Interpretazione del Dr. Heiter
– Finale

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– Sono presenti (proprio nelle prime sequenze) alcuni cliché dei classici horror
(..le ragazze che bucano una gomma nel bosco, la pioggia, lo sconosciuto che le soccorre, la loro ingenuità nel fidarsi di un uomo strano fin da subito, la mancata ma possibile fuga in più momenti..
Tutto ciò potrebbe generare qualche esitazione.
Non temete, il resto sarà ben diverso.)

 FULL SEQUENCE

“The Human Centipede” è solo un film.
Il sequel nasce da questa idea geniale, una soluzione che rende possibile l’intento del regista di creare una “trilogia siamese”. Dal finale del primo episodio, si aggancia l’incipit del secondo (..e dal finale del secondo, si avvierà l’incipit del terzo..
..sì, ci sarà un terzo film).
“The Human Centipede” è solo un film e Martin lo sta guardando. 090711_humancentipede
Stavolta però, lo spettatore si identifica nel carnefice (sebbene Martin sia già egli stesso un uomo dalle caratteristiche anomale: violentato da piccolo dal padre, silenzioso, obeso, mezzo-cieco, disgustoso) e cerca di cogliere nel dettaglio tutto ciò che può servirgli per emulare (e superare!) l’esperimento del dottore (..incluso l’adottare come animale domestico proprio un centopiedi).
Se nel primo episodio i dialoghi sono ridotti all’osso, nel secondo sono totalmente assenti
(..Martin non parla MAI, per tutta la durata del film.) human-centipede-drawings-jpg
Se nel primo episodio si predilige uno “splatter ontologico”, nel secondo vediamo tutto ciò che non si era ancora visto.
Se nel primo episodio i colori gestivano le atmosfere, nel secondo tutto è ricondotto a bianco e nero, una scelta straordinariamente artistica che muta solamente in brevi momenti durante i quali assistiamo a fugaci tinte scure sui toni del rosso-marrone per enfatizzare i dettagli ripugnanti che si susseguono in maniera spasmodica.
Se nel primo episodio potevamo notare un approccio più serio e scientifico all’operazione, con tanto di attrezzatura e tecniche studiate alla perfezione, nel secondo assistiamo ad una creazione “artigianale” che arricchisce la componente splatter (..ne sono un esempio le “cuciture” fatte con una graffettatrice, i tagli con un coltello di fortuna e un’anestesia ottenuta “semplicemente” scagliando colpi brutali sulle vittime che vengono così stordite completamente). Quella realizzata da Martin è una catena di ben 12 persone (non più tre) dove mancano ormai personaggi “forti” o “deboli”: tutti provano di tutto. Una catena che tra l’altro ripropone l’attrice protagonista del primo episodio, stavolta posizionata al primo anello (nel primo episodio si trovava al centro della tripletta), ovvero colei che dovrà nutrirsi e nutrire a sua volta gli altri (..Martin decide di rintracciarla con l’inganno proprio dopo averla vista nel film). Human Centipede 2 13
Il personaggio di Martin è al contempo simile e antitetico rispetto al Dr. Heiter. La base comune è rintracciabile nella depravazione. Nel caso di Martin è una patologia incompresa che viene studiata da un dottore (per l’appunto) che la riconduce ossessivamente a cause sessual-psicologiche (..ne è un esempio l’interpretazione del medico secondo cui il centopiedi avrebbe una valenza fallica, per poi scoprire che sarà il dottore stesso in primis ad essere un maniaco depravato.) L’intera pellicola è disseminata di elementi a tratti davvero troppo fastidiosi: se si pensa alla scena in cui Martin somministra forzatamente un potente lassativo alla “creatura” potrebbe essere difficile rimanere impassibili e guardare le reazioni che si susseguiranno (..tra cui il compiacimento di Martin di fronte alla scena).
Quella di Six è un’opera totalmente Perturbante nel senso clinico del termine. È infatti (come spiega Freud) un processo attraverso cui elementi familiari diventano all’improvviso a noi estranei: in questo caso il meccanismo di rifiuto (generato dal contesto) scatta per le due funzioni biologiche fondamentali dell’uomo: il nutrimento e l’escrezione.

[++]
– Bianco e nero
– Inizio
– Martin

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– Fine 2
(..gli ultimi minuti in cui Martin è al pc)

[-]
– Fine 1
(..la reazione della ragazza nei confronti di Martin potrebbe sembrare poco azzeccata)
– Scena del feto schiacciato: visivamente potente, un momento in cui il tragico si unisce al grottesco, ma è inutile ed estranea ai fini del film
(“..anche l’irrilevante si trasforma in Evento”)

[–]
– L’operazione ha molte incongruenze, sebbene sia dettagliata e sembri potenzialmente fattibile è scientificamente impossibile e totalmente irreale
(..troppe volte nel film ci sono scene forzate in cui i personaggi sarebbero evidentemente morti poco dopo, cosa che non accade.)

Voto: 84% (..per ora?)

 

FINAL SEQUENCE

 

 

Sonia Colavita|