Voto 16/20
P.S.
Tutto il film è un’operazione di depistaggio nei confronti dello spettatore.
Anche il Finale.
Non pochi [leggasi “Molti”] hanno inteso la sequenza conclusiva come testimonianza di un percorso riabilitativo incompiuto. Il protagonista ricadrebbe nell’irrealtà, nel diversamente-reale, in quella sorta di oblio dinamico nel quale aveva trovato asilo (prigione elevata a fortezza).
Con lui, decadrebbe anche la prospettiva utopistica dei medici di trovare una Cura
(Cura, come attenzione terapeutica e considerazione umana).
Eppure l’autore [integrando magistralmente il testo da cui il lavoro cinematografico è tratto] ci concede (sotto forma di domanda) un motivo di dubbio, rispetto a questa ipotesi:
“Cosa sarebbe peggio..
..vivere da mostro o morire da uomo per bene?”.
Il dubbio, in verità, si offre come mero artificio letterario, poiché mostra più di quanto intende celare. Rivela, infatti, la scelta cosciente da parte del protagonista di affrontare la “morte” (psichica) come atto emotivo di distensione ultima e come atto simbolico di comprensione definitiva, interrompendo le intermittenze lesive della sua coscienza.
Tutto il film è un’operazione di despistaggio.
La collocazione temporale degli eventi (nel periodo post-bellico), l’ambientazione austera (l’ospedale psichiatrico), l’impenetrabile atmosfera che permea l’istituto (atmosfera visiva e auditiva).
[Merita un cenno particolare la colonna sonora, capace di intrecciare differenti tratti di intensità all’interno di un unico arco espressivo, da Ligeti a John Cage, da Penderecki a Morton Feldman, da Schnittke a Brian Eno.]
Soprattutto, però, è la caratterizzazione incisiva dei singoli personaggi a determinare l’affermarsi di monolitiche convinzioni da parte dello spettatore.
Il Direttore algido e severo, lo staff medico evasivo, pazienti confusi e deliranti che puntualmente dispensano presagi traboccanti d’inattesa lucidità.
Il film riesce a inanellare una serie di caratteristiche che conducono all’evidenza di una spiegazione apparentemente prevedibile. Ogni elemento converge verso l’emergente follia del protagonista, in una duplice orbita che comprende le segrete macchinazioni dei dottori dell’istituto (di cui il medico tedesco sarebbe cardine).
L’osservatore, in virtù di tutto ciò, si crogiola nelle proprie convinzioni (giace in una forma concettuale di autoerotismo).
Per poi scoprire che tutto è finzione.
Ma non vi è stato errore di calcolo.
È il calcolo stesso delle trame narrative che si rivela inefficace.
Tutto il film è un’operazione di despistaggio, dunque.
Così come questa Recensione.
Nel suo centrare l’attenzione sulla presunta operazione di depistaggio, depista.
Il cuore pulsante, che costituisce la perla radiosa dell’intero progetto, e lo alimenta, risiede nel gioco strutturale degli individui.
Il film ricrea perfettamente, nel film, la finzione narrativa. Gli attori interpretano personaggi che interpretano ruoli.
I ruoli vengono stabiliti e relazionati in maniera impeccabile (nell’accezione “accademica”). Protagonista, co-protagonista, antagonisti agiscono su questo vasto palcoscenico, sublimando nell’evento attoriale modalità comunicative altrimenti improduttive.
Se torniamo al livello emergente dei personaggi (quello intermedio fra attore e ruolo) ci troviamo spiazzati di fronte alla sostanziale fissità drammatica della Vicenda.
La realtà esterna viene praticamente privata di ogni elemento di conflittualità.
La dialettica si riduce ad una traiettoria filiforme verso la quale convergono tutte le forze in gioco, affluendo sinergicamente al solo scopo di risanare la dispersione frammentaria del protagonista.
La Dialettica Narrativa si rivela quale proiezione di una conflittualità tutta interna al Primo Attore, che a sua volta si rivela quale proiezione animica di un Palcoscenico Interiore.
Ha un certo valore, infine, notare e sottolineare la forma specifica della domanda conclusiva.
Andrew non chiede “Cosa è meglio..?” ma “Cosa sarebbe peggio..?”, eccezionalmente conscio del fatto che entrambe le alternative, più che “soluzioni”, rappresentino comunque esiti meramente palliativi.
Il condizionale, poi, acuisce la percezione di una distanza meditativa dalle due direzioni. Confina l’ora in un limbo contemplativo, diluendone il potenziale catartico.
È proprio attraverso questa ritrovata plasticità dell’istante, all’interno di questa regione temporale di confine, che l’alienazione assurge a luogo di cittadinanza..almeno per quel breve tratto di esistenza che separa la caotica moltitudine del Vissuto dalla caotica opacità dell’Assente.
|SF|