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Da Rashomon ad Imprint: il cinema giapponese ragiona sul punto di vista

Il punto di vista è il luogo sacro in cui si realizza una percezione. Il film di Akira Kurosawa è uno dei primi esempi di cinema a fornirci una molteplicità mai uguale di punti da cui vedere e quindi enunciare un’unica storia. Ogni testimone o sopravvissuto all’accaduto racconta una storia, che è la stessa ed ha i medesimi personaggi. Ma proprio le modificazioni portate da quest’ultimi non ci consentono di avere un approccio sicuro e senza dubbi con la realtà dei fatti.

Ogni storia potrebbe essere la vera, non c’è un punto di vista onnisciente e super partes: ogni racconto si genera da una parte del racconto stesso, un particolare diventa universale ma non abbiamo mai la percezione dell’universale in quanto tale.

Tutto può essere falso, ma non tutto può essere vero se seguiamo la logica canonica del narrare una storia. Tuttavia nel film del geniale cineasta nipponico tutto può essere plausibile, non c’è modo di distinguere il racconto falso dal vero. E se un racconto può essere più veritiero di un altro, siamo comunque lontani dalla verità totale. E’ questa mancanza di implausibilità a rendere difficoltoso il riconoscimento: se un tale ci racconta che Cappuccetto rosso mangia il lupo ed un altro che è il lupo a mangiare la bambina tendiamo (per plausibilità narrativa) a dare ragione al secondo.

Ma in Rashomon non è possibile fare questa diversificazione: tutto è plausibile ma una storia sola è vera, e per assurdo potrebbe essere anche quella della vittima che narra il suo punto di vista dall’aldilà.

Con Imprint del geniale e feroce Takashi Miike (episodio contenuto nell’antologia Masters of horror) il punto di vista è anche qui molteplice ma ha la stessa matrice: è il personaggio della prostituta sfregiata che ogni volta modifica il racconto della morte della donna amata dall’americano. E talvolta tale racconto proviene dalla “metà oscura” nascosta della donna, una metà oscena e deforme che la costringe a mentire in continuazione (e ad uccidere).

Ma anche qui il finale non ci da la sicurezza che speravamo di trovare: dopo tutti gli orrori sopportati, lo spettatore non viene neanche ripagato con la verità che continua a rimanere ambigua ed inquietante.

Dove si trova questa agognata verità? Chi e come continua ad ingannare lo spettatore? Come è morta (se è morta) la donna tanto amata dal protagonista?

Non ci è dato saperlo: forse è questo l’orrore più grande presente nel film di Miike.

>Stefano Tibaldi<


Lesson of the evil

17/20

L’attesa. E’ questo l’elemento strutturale di uno degli ultimi film del geniale cineasta nipponico Takashi Miike (ma che sta avendo la sua visibilità ad un anno dalla sua uscita in patria).

Un racconto violento e che semina intuizioni e picchi adrenalinici per un’ora e venti per poi far germogliare questi ultimi in un vortice ritmico e feroce che si sviluppa nell’arco dei conclusivi quarantacinque minuti di narrazione. E’ una struttura che riprende palesemente la discesa  infernale di Audition, uno dei cult monumentali del regista.

La preparazione: un incipit dove si deduce che un bambino ha sterminato con un pugnale la sua famiglia che “voleva farlo curare”. Cambio di scena: giovani studenti alle prese con un insegnate di inglese e pian piano la natura di quest’ultimo viene a galla fino a sfociare in inaspettati omicidi e violenti flashback che ci fanno intendere quello che già sospettavamo: il bambino psicopatico (si nota un certo rimando ad un classico di John Carpenter..) è il qui (onni)presente professor Hasumi.

Tempo trascorso dall’inizio della visione: quasi un’ora. Un’ora condita da un nulla a tratti interrotto da immagini in grado di riaccendere l’attenzione (anche se forse mai sopita visto la curiosità dell’incipit) dello spettatore e divagazioni “ornamentali” un pò forzate ma comunque piacevoli se prese a sé stanti. Questo è il difetto “mortale” della pellicola: troppe uscite dallo schema prefissato, troppa carne al fuoco poi non adeguatamente cotta e gustata, troppe sottotrame aperte in modo accattivante ma chiuse con troppa fretta per evitare di perdere la bussola. Il risultato sono 128 minuti di buon/ottimo cinema, quando potevano essere 90/100 minuti di cinema a cinque stelle.

Gli ultimi 45 minuti racchiudono tutta la ferocia (mai sopita col passare degli anni) dell’instancabile autore giapponese: quel che più rende magistrale questo lungo epilogo non è tanto la messa in scena di un massacro sistematico all’interno di un liceo, ma è appunto la sua durata. Una sequenza di tre quarti d’ora (ricordiamo che la sequenza è quell’insieme di scene che ha una unica direzione narrativa, una sorta di mini-film dentro il film), all’interno della quale la macchina da presa segue imperturbabile il fucile e le lame dello spietato professore accanirsi su indifesi studenti liceali ha dell’incredibile. Se ne esce dalla visione con la sensazione di aver assistito ad uno dei migliori epiloghi della storia del cinema (almeno di quello recente).

Ma ciò non basta perché Takashi Miike è un regista degli eccessi, mai sazio di annichilire il pubblico e sorprenderlo con trovate che superano la follia più visionaria (anche un altro autore degli eccessi come Alejandro Jodorowsky è rimasto basito di fronte ad alcune trovate del regista nipponico): gli ultimissimi minuti, nella loro brevità, lasciano a bocca aperta per l’intuizione che ne segue. Non dico altro.

Perdetevi.

>Stefano Tibaldi<