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Mulholland Drive

Premetto da subito di non essere un grande fan di David Lynch. Considero le sue prime due opere (Eraserhead e The Elephant Man) i suoi capolavori, con una discesa verso il successo sempre più complessa e meno ricca di idee. Il film in questione, Mulholland Drive, potrebbe aprire dibattiti eterni sulle molteplici interpretazioni che gli si possono conferire, ma, in realtà, non sono poi molte quelle credibili e coerenti con gli eventi narrati.

Il film è diviso sostanzialmente in due parti: nella prima, un’attrice emergente arrivata ad Hollywood, piena di entusiasmo e sogni, entra in contatto con una donna misteriosa, che in seguito ad un incidente perde la memoria e cerca di ricostruire faticosamente il suo passato. Difatti, la prima storia non si conclude, lasciando aperti molti quesiti (soprattutto sul passato dimenticato). Le scene conclusive sono confuse e quasi fuori contesto (su tutte la scena dello spettacolo spagnolo).

Il passaggio dalla prima alla seconda storia avviene tramite una sorta di cubo magico, il quale, una volta aperto, ci catapulta in una nuova realtà. Qui comincia una storia del tutto differente, con le stesse protagoniste della prima a ruoli pressapoco invertiti. Questa volta la storia si conclude: una storia di amore, odio ed invidia che sfocierà nel dramma più assoluto.

In realtà, il nocciolo del film è tutto nel passaggio tra una storia e l’altra. Premesso che non possa trattarsi di due eventi che si susseguono in ordine cronologico (sarebbero troppe infatti le incongruenze temporali), ci si può sbizzarrire nel fornire spiegazioni più o meno credibili: la prima Storia è un sogno? O è frutto dell’immaginazione della giovane attrice? Nella seconda vicenda vediamo come si sono svolti realmente  gli eventi? Tutto molto probabile e allo stesso tempo troppo semplice. Cerchiamo di andare più a fondo: se fosse vera una delle ipotesi appena citate, per quale motivo vengono inseriti all’interno del contesto oggetti misterioso (il cubo magico) e personaggi indecifrabili (il Cowboy, tanto per citarne uno)? Si potrebbe provare ad interpretare il cubo come una sorta di ponte tra due realtà parallele, che potrebbe conferire anche un certo tono di complessità al tutto, ma sinceramente non vi è alcun riferimento successivo che possa avallare questa ipotesi, né tanto meno motivazioni chiare per poterla escludere…E allora ci si chiede: qual’è l’obiettivo di Lynch? Creare una storia (doppia) che abbia diverse interpretazioni? O un’unica storia complessa con un unico significato (indecifrabile)? In tutti e due i casi, a mio modo di vedere, l’obiettivo non viene centrato. Nessuna esplicazione soddisfa in pieno ciò che vediamo scivolare sullo schermo e sinceramente, anche se ci fossero dei riferimenti difficilissimi da cogliere, non è comunque un cinema che mi sento di approvare o esaltare. Un film in sé deve essere completo e soddisfacente nella sua interezza. Se poi il regista si vuole divertire ad inserire una serie di riferimenti di una profondità “bestiale” (come in Shining), è liberissimo di farlo; ma, prima di tutto, una trama che si rispetti deve reggersi su sé stessa, deve restare comprensibile al pubblico anche se non si è visto un solo film dell’autore o non si conoscono le sue influenze, che potrebbero averlo portato a fare un certo tipo di scelte. Sono tutti dettagli che arricchiscono la struttura di un film, ma che non possono in alcun modo inficiare la comprensione globale dell’opera. Sarebbe come portare su grande schermo un film tratto da un libro e non inserire alcuni elementi fondamentali alla comprensione globale, fornendo una chiave di lettura completa solo a coloro i quali abbiano letto l’opera iniziale.

Ultima critica, senz’altro la meno importante, sulla realizzazione tecnica. In alcuni tratti sembra davvero di rivedere Twin Peaks, con la differenza che quest’ultimo è stato girato all’inizio degli anni ’90 e Mulholland Drive ad inizio anni 2000. Sarebbe stato poco rilevante nel caso in cui l film avesse presentato una trama coinvolgente e completa, ma visto che non è cosi, almeno a mio parere, gli effetti speciali danno ancora più un senso di frustrazione ed incompletezza che delineano un regista privo di idee e di contenuti, in un film che, tutto sommato, anche nelle storie che racconta, rimane banale e mai sorprendente.

Voto: 65%

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E’ un film che può creare un dibattito enorme

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Confuso e Incompleto

Povero di contenuti, soprattutto nella trama

Realizzazione tecnica da film di serie B

Stefano Cherubini


Velluto blu

Il primo vero successo commerciale di David Lynch è una geniale reinvenzione del cinema noir.

E’ una rivisitazione che parte da ciò che nel noir era totalmente assente: il colore. Un colore saturo, potente che si palesa già dalla prima inquadratura: un velluto blu svolazzante, quasi un sipario che ci addentra in un mondo di perdizione e morte. Poi abbiamo l’incipit: uno dei più inquietanti e disturbanti degli ultimi 30 anni di cinema (e non solo).

L’apparente vita tranquilla della cittadina americana è scossa da qualcosa di oscuro, che vive nei bassifondi e che presto imprigionerà il protagonista e noi con lui (palese è il lento zoom nell’erba che pian piano scopre la lotta disgustosa di alcuni scarafaggi). Un mondo nascosto fortemente gotico, ambiguo, pauroso dove la luce sembra aver perso qualsiasi forma di manifestazione. Come scriverà la studiosa Laura Mulvey, siamo di fronte ad un testo che raffigura il complesso di Edipo, il gotico ed il perturbante nella sua accezione freudiana (questa parola ha un significato molto sfaccettato e complesso).

Io vorrei soffermarmi solo sul genere, o meglio, i generi che il film di Lynch mette in campo: il gotico ed il noir.

Le manifestazioni del gotico (inteso proprio come il genere letterario nato in Inghilterra) sono presenti ogni qual volta il nostro Jeffery si addentra nel palazzo dove vive la bella cantante in pericolo: scale buie, angoli minacciosi, un cattivo dai tratti demoniaci e perversi ( il Frank Boot interpretato da uno straordinario Dennis Hopper è uno dei villain più riusciti di sempre). Senza dimenticare che la bionda ed innocente Sandy (interpretata da Laura Dern) è la principessa che alla fine l’eroe sposerà. Ovviamente dopo aver sconfitto il mostro.

Del noir tutto è trasfigurato per trasformare il film in un capolavoro neo-noir. Abbiamo la femme fatale interpretata da una sensuale e pericolosa Isabella Rossellini, che trascina l’ingenuo Jeffrey nel mondo criminale e pauroso di Frank Booth. Abbiamo un crimine da risolvere, ovvero scoprire a chi appartiene l’orecchio mozzato trovato nel prato ( e se vogliamo qui abbiamo anche un tipico mcguffin hitchcockiano, ovvero un oggetto importante per i personaggi ma non per lo spettatore ma che da’ il via all’azione); poliziotti corrotti e doppiogiochisti (vedi l’uomo in giallo) ed ovviamente un criminale da neutralizzare. Insomma, Lynch è riuscito con un solo film a riportare alla ribalta un genere del passato, con una nuova tipologia di messa in scena: onirica e surreale (sull’onirico non ci sarebbe nulla di nuovo visto che anche il noir classico era molto legato alle forme di manifestazione del sogno, ma era totalmente assente lo stampo surrealista tipicamente lynchano).

Inoltre il film ha sempre un punto di vista iniettato di desiderio di Jeffrey nei confronti della cantante, ma anche nostro. Nella famosa scena dello stupro con il velluto blu vediamo con gli occhi del protagonista, abbiamo lo stesso punto di vista voyeuristico. Lo spettatore si fa protagonista con una semplice soggettiva.

Uno dei migliori neo-noir di sempre.

Voto: 90%

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Il senso di perdizione ed inquietudine che avvolge lo spettatore.

La regia.

Dennis Hopper mostruoso (in tutti i sensi).

Il “teatro della morte” nel finale.

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In alcune scene i dialoghi non sono il massimo.

<Stefano Tibaldi>


Solo Dio perdona

 

Voto 20/20

Nicolas Winding Refn sta diventando, volente o nolente, uno degli autori più importanti del nuovo cinema contemporaneo. Il suo stile è cangiante, sa adattarsi alla sceneggiatura del film e lo ha dimostrato con Bronson dove sono visibili e tangibili vari riecheggiamenti appartenenti all’Arancia meccanica kubrickiana. Ma il suo stile è un altro: è evocativo, misterico, meditativo con improvvisi scoppi di violenza brutale al limite dello splatter.

Questo Only god forgives non è la continuazione stilistica e formale dell’acclamato Drive ( se si esclude il personaggio silente di  Ryan Gosling) ma di un altro film intellegibile girato dal regista danese: Valhalla Rising. Il silenzio sovrabbondante che riempie i vuoti delle due pellicole è affascinate e fa tornare alle origini del cinema, nato come arte muta in grado di raccontare esclusivamente per immagini. Immagini curate in modo metodico, con una colorazione e strutturazione pittorica a dir poco maniacale che rendono superfluo qualsiasi approccio verbale tra i personaggi. A quest’ultimi manca la parola (il vichingo One eye) o non tentano quasi mai di esprimersi con essa ( il Julian interpretato da Gosling). La loro comunicazione ed iterazione (soprattutto con lo spettatore) avviene con lo sguardo, con i gesti, con la fisicità appartenente ad un cinema che fu.

Solo Dio perdona narra sostanzialmente di un uomo che si confronta con Dio appunto, ne è sopraffatto e finalmente può trovare la pace. Il misticismo nascosto nelle viscere di un crime/thriller violento emerge nelle figura del poliziotto/dio/giustiziere che decide la vita e la morte di ognuna delle presenze umane che si aggirano sullo schermo: come un dio il suo operato è imperscrutabile (è un tutore della legge, eppure giustizia e mutila come un samurai dell’ottocento), come un dio è immortale e sa in anticipo o quasi ciò che sta per succedere (la scena dell’attentato) stroncando sul nascere quasi tutte le mosse dei suoi avversari.

Refn è un autore che ha un suo stile riconoscibile e collaudato che è in grado di modificarsi in base alle esigenze (i già citati BronsonDrive ), ma l’esperienza visiva e sensoriale che ci viene offerta questa volta non può non far pensare ad un altro grande cineasta che ha fatto delle immagini suggestive il suo marchio di fabbrica: David Lynch. Come non riconoscere nelle lente carrellate nei corridoi saturi di luci sanguigne ed oscurità un leitmotiv lynchano? Julian fermo di fronte a ciò che sembra una porta buia ed irreale non può non far tornare alla mente le entrate tenebrose dove si spingono i personaggi di Lynch, in particolare in Strade perdute (le sequenze sono quasi speculari tra i due film). La musica, questi suoni angoscianti ed in crescendo quasi onnipresenti, sono anch’essi lynchani al cento per cento, ma ciò non toglie che Refn sappia benissimo rielaborarli a suo piacimento ed amalgamarli in maniera eccellente alle sue potenti immagini.

Questo è uno di quei film che si possono racchiudere nella ristretta cerchia delle esperienze: per esperienza si intende un film che va oltre la storia, che si avvale di simbolismi e punti di vibrazione potenti, che affascinano e rendono lo spettatore abbaccinato dalle immagini. Il cinema di Refn non è per tutti, e la stereotipata frase “il mio cinema o si ama o si odia” questa volta ha un fondamento critico più che valido, privo di qualsiasi autocompiacimento neanche troppo velato ( vedi l’esempio di Tarantino). Giusto il ringraziamento finale ad Alejandro Jodorowsky .

Io non posso che dare il massimo dei voti perché questo è grande cinema sotto ogni punto di vista: criticabile, che può (anzi a mio avviso deve) non piacere ai più. Ma è Cinema.

>Stefano Tibaldi<


Eraserhead-La mente che cancella

 

Voto 19/20

Il film d’esordio di David Lynch nasce innanzitutto da quel clima d’avanguardia studentesca attiva negli anni ’70, dove si era soliti mischiare e far confluire tra loro diverse forme di messa in scena cinematografica fortemente legate alla pittura e alla videoarte. Il regista era il creatore tout court dell’opera, l’artigiano/scultore che creava le scenografie e gli effetti speciali, scriveva, girava, tagliava, montava a suo piacimento. Un’idea di cinema totalmente libera ed indipendente, che portava il suo autore ad avere la stessa forma di isolamento intellettuale/creativo tipica del pittore o del poeta.

Eraserhead nasconde, sotto i suoi strati weird, orrorofici e visionari, un substrato tragico ed emotivamente devastante: la paura della paternità sancita dall’orrore quotidiano (in questo caso da intendersi come familiare, cioè orrore del vivere in famiglia). Questo orrore è tangibile già nell’atto stesso della procreazione: il protagonista è disgustato dal sesso con la propria consorte, ma non disdegna l’atto sessuale di per se. Non tollera l’atto quando questo avviene con la propria moglie, perché sa che in quel caso il sesso genera una creatura che lui non desidera e di cui non vuole essere responsabile. Ma con la sua conturbante vicina di casa questo non avviene: in quel caso il sesso è un atto adulterino, quindi è chiaro che da quell’amplesso non vi è alcun pericolo di creazione di un nucleo familiare.

Henry (è il nome del protagonista) non ha mai un rapporto sessuale con la moglie, eppure lei rimane incinta e lo annuncia nel grottesco ed inquietante pranzo con la famiglia. Una famiglia che non ha nome, che potremmo chiamare “coniugi X” o “famiglia X“: quest’assenza del nome, che è l’elemento base con cui un soggetto o più soggetti vengono riconosciuti, rafforza maggiormente la volontà dell’autore (e di Henry) di negare il nucleo familiare, di cui anche l’enunciazione verbale del nome è causa di disagio. Inoltre, l’atto sessuale generativo non è mai avvenuto e Henry nega la paternità della creatura che la donna porta in grembo. E’ per questo che l’uomo sogna la Lady del termosifone deforme che canta In Heaven everything is fine ( In cielo tutto va bene) mentre schiaccia degli enormi spermatozoi: la donna elimina gli agenti stessi della paternità, liberando la mente di Henry dall’angoscia di diventare padre. Il cielo a cui si riferisce questo freak femminile rappresenta per l’uomo una sorta di paradiso dove lui non è padre e non ha figli, quindi un luogo dove “va tutto bene”.

Altra sequenza che mette in mostra l’assenza strutturale del sesso coniugale è l’abbandono della casa da parte di Mary (la moglie): nel cercare di liberare la valigia da sotto il letto, la donna fa sbattere quest’ultimo in modo molto violento. Il movimento non fa che simulare un atto sessuale decisamente brutale ed animalesco: anche qui al sesso è accostata la violenza, l’orrore di un atto distruttivo piuttosto che creativo. D’altronde questa violenza sessuale era stata anticipata dal pollo che si anima durante il pranzo: il suo muovere le zampe e la fuoriuscita di un liquido denso e scuro rimandavano alla perdita della verginità.

Henry, nelle sue movenze e nel suo abbigliamento, è una caricatura comica e buffa. Sembra essere una sorta di Charlie Chaplin o Buster Keaton, inserito in un contesto alienante e disturbante; un contesto che lo confonde sempre di più. E’ il perturbante freudiano: l’uomo si trova circondato da oggetti comuni e familiari, ma quest’ultimi sono trascinati in un mondo “altro”. Il loro spostamento genera l’inquietudine, e vengono continuamente percepiti come ripugnanti e paurosi perché inseriti in una realtà a loro non consona. Un perturbante che è amplificato anche dal complesso ambiente sonoro del film.

Il fuoricampo di Eraserhead, da cui provengono la maggior parte dei suoni disturbanti, è in un certo qual modo assoluto, perché quasi mai nel testo filmico viene messa in quadro la fonte dell’inquietante manifestazione sonora. Alle volte questi suoni sembrano finti e volti ad ingannare lo spettatore, alle volte sono descrittivi e vanno a sostituire “il tutto”: sono suoni che disegnano una metropoli moderna e metallica, ma che non viene mai mostrata se non in minime porzioni. Una città dove la gente normale non passeggia, non si manifesta o sembra non esistere. Sono tutte assenze visive e presenze sonore che esistono simultaneamente e aumentano e dismisura lo stato perturbante. Senza dimenticarci del bambino/mostro: la sua raffigurazione visiva non è verosimile, tuttavia i vagiti ed i lamenti che tira fuori ce lo fanno percepire effettivamente come un bambino appena nato che ha bisogno di cure. E ciò avviene soprattutto quando la fonte del pianto non è in campo.

>Stefano Tibaldi<