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Solo Dio perdona

 

Voto 20/20

Nicolas Winding Refn sta diventando, volente o nolente, uno degli autori più importanti del nuovo cinema contemporaneo. Il suo stile è cangiante, sa adattarsi alla sceneggiatura del film e lo ha dimostrato con Bronson dove sono visibili e tangibili vari riecheggiamenti appartenenti all’Arancia meccanica kubrickiana. Ma il suo stile è un altro: è evocativo, misterico, meditativo con improvvisi scoppi di violenza brutale al limite dello splatter.

Questo Only god forgives non è la continuazione stilistica e formale dell’acclamato Drive ( se si esclude il personaggio silente di  Ryan Gosling) ma di un altro film intellegibile girato dal regista danese: Valhalla Rising. Il silenzio sovrabbondante che riempie i vuoti delle due pellicole è affascinate e fa tornare alle origini del cinema, nato come arte muta in grado di raccontare esclusivamente per immagini. Immagini curate in modo metodico, con una colorazione e strutturazione pittorica a dir poco maniacale che rendono superfluo qualsiasi approccio verbale tra i personaggi. A quest’ultimi manca la parola (il vichingo One eye) o non tentano quasi mai di esprimersi con essa ( il Julian interpretato da Gosling). La loro comunicazione ed iterazione (soprattutto con lo spettatore) avviene con lo sguardo, con i gesti, con la fisicità appartenente ad un cinema che fu.

Solo Dio perdona narra sostanzialmente di un uomo che si confronta con Dio appunto, ne è sopraffatto e finalmente può trovare la pace. Il misticismo nascosto nelle viscere di un crime/thriller violento emerge nelle figura del poliziotto/dio/giustiziere che decide la vita e la morte di ognuna delle presenze umane che si aggirano sullo schermo: come un dio il suo operato è imperscrutabile (è un tutore della legge, eppure giustizia e mutila come un samurai dell’ottocento), come un dio è immortale e sa in anticipo o quasi ciò che sta per succedere (la scena dell’attentato) stroncando sul nascere quasi tutte le mosse dei suoi avversari.

Refn è un autore che ha un suo stile riconoscibile e collaudato che è in grado di modificarsi in base alle esigenze (i già citati BronsonDrive ), ma l’esperienza visiva e sensoriale che ci viene offerta questa volta non può non far pensare ad un altro grande cineasta che ha fatto delle immagini suggestive il suo marchio di fabbrica: David Lynch. Come non riconoscere nelle lente carrellate nei corridoi saturi di luci sanguigne ed oscurità un leitmotiv lynchano? Julian fermo di fronte a ciò che sembra una porta buia ed irreale non può non far tornare alla mente le entrate tenebrose dove si spingono i personaggi di Lynch, in particolare in Strade perdute (le sequenze sono quasi speculari tra i due film). La musica, questi suoni angoscianti ed in crescendo quasi onnipresenti, sono anch’essi lynchani al cento per cento, ma ciò non toglie che Refn sappia benissimo rielaborarli a suo piacimento ed amalgamarli in maniera eccellente alle sue potenti immagini.

Questo è uno di quei film che si possono racchiudere nella ristretta cerchia delle esperienze: per esperienza si intende un film che va oltre la storia, che si avvale di simbolismi e punti di vibrazione potenti, che affascinano e rendono lo spettatore abbaccinato dalle immagini. Il cinema di Refn non è per tutti, e la stereotipata frase “il mio cinema o si ama o si odia” questa volta ha un fondamento critico più che valido, privo di qualsiasi autocompiacimento neanche troppo velato ( vedi l’esempio di Tarantino). Giusto il ringraziamento finale ad Alejandro Jodorowsky .

Io non posso che dare il massimo dei voti perché questo è grande cinema sotto ogni punto di vista: criticabile, che può (anzi a mio avviso deve) non piacere ai più. Ma è Cinema.

>Stefano Tibaldi<