Il capitale umano

Di certo non si può dire la svolta poetico/stilistica di Paolo Virzì non abbia portato nuova e fresca linfa alla sua filmografia che forse stava giungendo al giro di boa.

Quest’ultima opera è uno specchio crudele ma veritiero dell’Italia dei nostri tempi: una nazione la cui autostima, grandezza e credibilità sono state messe a dura prova dalla crisi. I personaggi che si muovono nell’universo simil-noir creato da Virzì sono tutti vittime sacrificali del fardello pestifero della tremenda crisi.

Nessuno si salva e nessuno dunque può rimanere immacolato in un miasma di ansie e paure che. volenti o nolenti; ci imbrigliano e ci fanno reagire di conseguenza.

E’ quello che fanno tutte le maschere grottesche ma assolutamente riuscitissime che popolano il film: ognuno reagisce per un effetto causale e la reazione determina altri azioni che pian piano ci offrono tutto il quadro della vicenda. Si perché l’intreccio non è subito chiaro fin dal principio (cosa curiosa e oserei dire sperimentale per il nostro cinema mainstream).

Il film si apre splendidamente con una carrellata in dolly che finisce per inquadrare un cameriere. All’apparenza costui sembra un personaggio di contorno, inutile ma di lì a poco si scoprirà essere un mac guffin (nella pura accezione hitchcockiana) antropomorfo che fungerà da vettore drammatico per tutti o quasi i destini dei personaggi.

La narrazione è divisa in quattro capitoli, ma è solo l’ultimo di questi che ci fa procedere nella narrazione; nella misura in cui gli altri tre non sono altro che gli stessi eventi ma visti da un punto soggettivo di volta in volta differente. E la scelta quasi avanguardistica (conoscendo il suo cinema da sempre lineare) di Virzì è assolutamente funzionale per innescare immediatamente i processi cognitivi tanto cari a David Bordwell: lo spettatore, ad ogni ri-narrazione, deve rivedere e rifare le proprie congetture per arrivare al noccciolo della vicenda. E’ chiaro che l’elemento suspence è arriccchito ad ogni nuovo inizio della vicenda.

 

Voto: 78 %

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La scelta narrativa.

La volontà di rinnovare la propria poetica autoriale parlando dell’Italia di oggi senza sottolineare il lato comico.

La regia.

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Gli attori non sono sempre all’altezza della situazione.

Ci sono forse troppe pause che spezzano il ritmo.

 

>Stefano Tibaldi<

 

 


A Serbian Film

La pornografia non è più il “Paese delle Meraviglie”. 1978305_644654812271685_1017916087_o
Il film si spinge a livelli di repulsione-rabbia-eccitazione (più teorica che visiva) assolutamente aberranti.
Un progetto sui generis assemblato attraverso una messa in scena claustrofobica che rinchiude il protagonista-spettatore dentro la gabbia di un pavimento a scacchi bianco e nero.
Luci calde e soffuse, arricchite da una fotografia mutevole e adeguatamente sporca (..i lunghi corridoi spogli che Milos percorre inconsapevole di ciò che accadrà, seguito da operatori stranamente silenziosi.)
Una musica energica ma carica di tensione accompagna i numerosi picchi di impressionabilità 965892_644654788938354_1273118511_o
(..dalle prime meta-riprese fino all’apice rintracciabile nella sequenza di violenza su un feto appena partorito.)
Siamo di fronte ad un meta-film dalla sceneggiatura ben studiata, in cui si incastrano due piani temporali: passato e presente nella maniera più caotica possibile (..i flashback costruiscono la storia di Milos). 1890626_644654858938347_1204285385_o
Il protagonista (e noi con lui) sprofonda in un inferno allucinante, costretto (da marionetta drogata quale è diventato) a compiere atrocità che costituiscono proprio il filo su cui si regge tutto il film: il sottile confine tra etico e immorale..
..ovvero: Lo stritolamento totale del nucleo familiare.
“ Un piccolo numero di monaci durante l’estate mette sette caproni adulti in una stalla. Li lasciano lì per un mese, finché le palle non gli diventano grosse come meloni. Quando sono troppo eccitati, iniziano a scoparsi l’uno con l’altro. I monaci raccolgono il loro sperma sanguinolento, seccato dalle loro palle e lo mescolano con il latte; questo rende la pasta del pane migliore. Tu sei un caprone, Milos. Io sono il tuo monaco.”
Il messaggio dell’Opera è chiaro, diretto e catartico
..è un’esperienza dalla quale ne usciamo mentalmente violentati.
Questo è ciò che succede quando qualcosa/qualcuno s’impossessa di una qualche presunta superiorità (Spasojević in questo caso si riferisce alla condizione politica della Serbia facendo sì che il film sia portatore di una critica sociale) e ci impone (drogandoci!) di fare quello che non vogliamo fare (..né che faremmo mai!).
Questa è la spiegazione alle scene di pedofilia, stupri brutali, infanticidio, necrofilia e suicidio collettivo..
..dobbiamo sentire la violenza per poterla capire.


Voto: 85%

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– Srđan Todorović
– Scenografie
– Inquadrature
– Epilogo
– Non è un film per tutti

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– Disorientamento nell’identificazione dei piani temporali
(..sebbene sia appropriato e connesso alle sensazioni del protagonista sotto l’effetto di una droga che deturpa la sua integrità psico-fisica).
– La scena della “penetrazione oculare”
(..potrebbe suscitare qualche risata e rompere la tragicità dell’atmosfera).
– Non è un film per tutti

Sonia Colavita|

 


Le 5 cagne (più cagne) di Hollywood

Boris

Subito una precisazione: prima che la Boldrini ci faccia chiudere il nostro blog con l’accusa di maschilismo “spinto” , chiariamo subito che il termine “cagna” è una chiara citazione alla serie cult Boris. Chiunque di voi (spero molti) abbia visto la splendida serie TV made in Italy, non potrà non ricordarsi l’appellativo di “cagna maledetta” usato da René Ferretti per descrivere la sua “meravigliosa” attrice di punta. E allora, in una speciale classifica (del tutto personale), ripercorriamo brevemente quali attrici odierne sono degne di ricevere questo appellativo:

5) Sandra Bullock: Ebbene sì, la Sandrona nazionale rientra, seppur al quinto posto, nella nostra speciale classifica. Ma la domanda è: solo al quinto posto? Bhe, bisogna pur darle atto di aver vinto l’Oscar, ma non scordiamo che è stata l’unica attrice nella storia a vincere, nello stesso anno, Oscar e Razzie. Mica roba da poco!!! In tutti i casi, calcisticamente parlando, l’Oscar alla Bullock può essere paragonato agli europei vinti dalla Grecia o ad un campionato regolare vinto dalla Juventus (No…scusate!!! In quest’ultimo caso non ce ne sono stati).

4) Drew Barrymore: Tecnicamente, forse, la peggiore nella classifica, ma va ringraziata per aver abbandonato le scene, almeno a grandi livelli, da qualche anno. Dite la verità, neanche la ricordavate più.

3) Michelle Rodriguez: E qui, non me ne vogliano i fans di Fast & Furios, si entra davvero nel trash vero e proprio. L’espressività di questa attrice è pari a quella di un bradipo in letargo. Ahimé, nel suo curriculum figura anche un film con James Cameron (Avatar). Perfetta invece per lo splatter di Rodriguez: Machete.

2) Julianne Moore: Guardate Il Silenzio degli Innocenti e, subito dopo, guardate Hannibal: vi sarà chiaro in un istante perché la Moore compaia in questa classifica.

1) Charlotte Gainsbourg: E sul gradino più alto del podio troviamo lei, la “cagna maledetta”, colei che non solo è incapace, ma vanta una filmografia che sognerebbe qualsiasi attrice talentuosa di questo mondo. Inespressiva ed apatica, personalmente non sono mai riuscito a coglierle un sorriso sul viso. A sua discolpa, dobbiamo aggiungere che la sua “gloriosa” filmografia è dovuta in larga parte al rapporto con Lars Von Trier, che misteriosamente la mette in cima alla lista di ogni suo film.

Fuori categoria: Jessica Alba. Chiedo scusa in anticipo, ma non me la sono sentita di metterla in classifica. La sua straordinaria bellezza giustifica, in parte, le sue molte mancanze.

Oscar alla peggior attrice straniera: Asia Argento. Se fosse stata americana avrebbe meritato il quinto, il quarto, il terzo, il secondo ed il primo posto, senza ombra di dubbio. Figlia d’arte: ma di quale arte?? Considerando anche il padre…

…state pure tranquilli. Arriverà anche la controparte maschile. Conoscerete presto quali sono i nostri cani preferiti.

Stefano Cherubini

 


The Human Centipede

FIRST SEQUENCE

Nel segno di un clima malato e psicologicamente disturbante, il primo episodio (..della catena..) si presenta come l’esperimento ben riuscito di un genere innovativo: uno splatter ontologico che (etimologicamente parlando) rifiuta la reazione di ripugnanza visiva e preferisce colpire l’Essere dello spettatore con una concettualità molto singolare.
La depravazione umana mina la stabilità psico-fisica di chi guarda e genera un processo di identificazione possibile anche grazie alla più totale assenza di caratterizzazione delle vittime (sappiamo infatti poco e niente dei tre malcapitati, questo significa che potrebbero essere chiunque). the-human-centipede-the-first-sequence-191-e1288211040148-700x342
I contrasti scenografici tentano di far presagire l’inquietudine dell’atmosfera e sono identificabili già nelle prime sequenze in cui alla bella casa del dottore desolata nel bosco e il giardino super curato si contrappone (nello stesso giardino) l’inquadratura di una tomba con scritto: “Al mio caro tri-cane..” human-centipede1Oppure, gli interni lussuosi della villa che mascherano in realtà la zona sotterranea
dello scantinato-sala-di-tortura (..che diventa inaccessibile perfino ai poliziotti, anche quando sembra che tutto stia finalmente per risolversi). La confusione iniziale è tale da disorientare il destino e la comprensione del progetto del dottore, fin quando non assistiamo (da buone cavie) alla spiegazione scientifica e dettagliata del professore, incurante delle urla e del pianto straziante delle tre vittime. Da questo momento in poi, la visione diventa una perenne violenza mentale, la dignità dei tre martiri (ormai costretti in un corpo solo) è confinata entro certi obblighi e azioni.
Sebbene ci siano comunque ben due anelli della catena (su tre, nonostante la terza vittima sia pressoché inesistente) che tentano di ribellarsi al progetto, non vi è possibilità di salvezza. still3(3)
Saranno proprio i due mancati eroi a patire le brutalità più estreme: comportarsi come un cane, mangiare dalla ciotola, cibarsi degli escrementi dell’altro, suicidarsi e aspettare la morte.

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– Dieter Laser
– Interpretazione del Dr. Heiter
– Finale

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– Sono presenti (proprio nelle prime sequenze) alcuni cliché dei classici horror
(..le ragazze che bucano una gomma nel bosco, la pioggia, lo sconosciuto che le soccorre, la loro ingenuità nel fidarsi di un uomo strano fin da subito, la mancata ma possibile fuga in più momenti..
Tutto ciò potrebbe generare qualche esitazione.
Non temete, il resto sarà ben diverso.)

 FULL SEQUENCE

“The Human Centipede” è solo un film.
Il sequel nasce da questa idea geniale, una soluzione che rende possibile l’intento del regista di creare una “trilogia siamese”. Dal finale del primo episodio, si aggancia l’incipit del secondo (..e dal finale del secondo, si avvierà l’incipit del terzo..
..sì, ci sarà un terzo film).
“The Human Centipede” è solo un film e Martin lo sta guardando. 090711_humancentipede
Stavolta però, lo spettatore si identifica nel carnefice (sebbene Martin sia già egli stesso un uomo dalle caratteristiche anomale: violentato da piccolo dal padre, silenzioso, obeso, mezzo-cieco, disgustoso) e cerca di cogliere nel dettaglio tutto ciò che può servirgli per emulare (e superare!) l’esperimento del dottore (..incluso l’adottare come animale domestico proprio un centopiedi).
Se nel primo episodio i dialoghi sono ridotti all’osso, nel secondo sono totalmente assenti
(..Martin non parla MAI, per tutta la durata del film.) human-centipede-drawings-jpg
Se nel primo episodio si predilige uno “splatter ontologico”, nel secondo vediamo tutto ciò che non si era ancora visto.
Se nel primo episodio i colori gestivano le atmosfere, nel secondo tutto è ricondotto a bianco e nero, una scelta straordinariamente artistica che muta solamente in brevi momenti durante i quali assistiamo a fugaci tinte scure sui toni del rosso-marrone per enfatizzare i dettagli ripugnanti che si susseguono in maniera spasmodica.
Se nel primo episodio potevamo notare un approccio più serio e scientifico all’operazione, con tanto di attrezzatura e tecniche studiate alla perfezione, nel secondo assistiamo ad una creazione “artigianale” che arricchisce la componente splatter (..ne sono un esempio le “cuciture” fatte con una graffettatrice, i tagli con un coltello di fortuna e un’anestesia ottenuta “semplicemente” scagliando colpi brutali sulle vittime che vengono così stordite completamente). Quella realizzata da Martin è una catena di ben 12 persone (non più tre) dove mancano ormai personaggi “forti” o “deboli”: tutti provano di tutto. Una catena che tra l’altro ripropone l’attrice protagonista del primo episodio, stavolta posizionata al primo anello (nel primo episodio si trovava al centro della tripletta), ovvero colei che dovrà nutrirsi e nutrire a sua volta gli altri (..Martin decide di rintracciarla con l’inganno proprio dopo averla vista nel film). Human Centipede 2 13
Il personaggio di Martin è al contempo simile e antitetico rispetto al Dr. Heiter. La base comune è rintracciabile nella depravazione. Nel caso di Martin è una patologia incompresa che viene studiata da un dottore (per l’appunto) che la riconduce ossessivamente a cause sessual-psicologiche (..ne è un esempio l’interpretazione del medico secondo cui il centopiedi avrebbe una valenza fallica, per poi scoprire che sarà il dottore stesso in primis ad essere un maniaco depravato.) L’intera pellicola è disseminata di elementi a tratti davvero troppo fastidiosi: se si pensa alla scena in cui Martin somministra forzatamente un potente lassativo alla “creatura” potrebbe essere difficile rimanere impassibili e guardare le reazioni che si susseguiranno (..tra cui il compiacimento di Martin di fronte alla scena).
Quella di Six è un’opera totalmente Perturbante nel senso clinico del termine. È infatti (come spiega Freud) un processo attraverso cui elementi familiari diventano all’improvviso a noi estranei: in questo caso il meccanismo di rifiuto (generato dal contesto) scatta per le due funzioni biologiche fondamentali dell’uomo: il nutrimento e l’escrezione.

[++]
– Bianco e nero
– Inizio
– Martin

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– Fine 2
(..gli ultimi minuti in cui Martin è al pc)

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– Fine 1
(..la reazione della ragazza nei confronti di Martin potrebbe sembrare poco azzeccata)
– Scena del feto schiacciato: visivamente potente, un momento in cui il tragico si unisce al grottesco, ma è inutile ed estranea ai fini del film
(“..anche l’irrilevante si trasforma in Evento”)

[–]
– L’operazione ha molte incongruenze, sebbene sia dettagliata e sembri potenzialmente fattibile è scientificamente impossibile e totalmente irreale
(..troppe volte nel film ci sono scene forzate in cui i personaggi sarebbero evidentemente morti poco dopo, cosa che non accade.)

Voto: 84% (..per ora?)

 

FINAL SEQUENCE

 

 

Sonia Colavita|

 


Rio Bravo

Ancora una volta la dialettica fordiana si poggia su un assunto: il mondo si divide tra selvaggio e Legge. Ed in questo film è la Legge a farla da padrone. Non solo nel ruolo istituzionale e patriottico che rivestono quasi tutti i personaggi (sono ufficiali e reclute dell’esercito) ma anche il luogo è la Legge stessa: un forte in mezzo al deserto. Il forte che è, come la tradizione western vuole, isolato in mezzo al deserto. La Legge è installata in un non-luogo, senza legge: un luogo che rinnega a priori la civiltà, dominato dagli indiani la cui presenza è sempre minacciosa ed incombente.

All’interno di questo micro-cosmo militaresco John Ford costruisce un piccolo dramma familiare: il colonnello è il veterano John Wayne, il quale scopre che tra le reclute del campo è capitato suo figlio, un giovane ancora incapace di scegliere la carriera da intraprendere.

A complicare le cose si presenta la moglie/madre che cerca di convincere il consorte a lasciar andare il figlio. Ecco che dunque il grande Ford non solo rievoca la grande cavalleria, le sue epopee, i suoi scontri a fuoco, gli attacchi degli indiani (sempre spettacolari) ma realizza anche un bellissimo melodramma romantico, in un luogo dove l’amore fatica a nascere e ad installarsi. Il figlio diviene il tramite per riscoprire l’amore andato perduto negli anni della guerra, e la riconciliazione finale è una delle più belle della cinematografia fordiana.

Detto questo, non mancano le scene d’azione: l’assalto degli indiani alla carovana non può non far tornare alla mente quello più celebre di Ombre rosse, ed alcuni frammenti sembrano di fatto essere presi di peso da quel capolavoro generazionale. Un autore che cita se stesso e amplifica l’intensità della sequenza citata: non è da tutti.

villains non possono che essere gli indiani, a sottolineare come la prima parte dell’opera di Ford sia in qualche modo segnata da uno stereotipo (ma magistralmente messo in scena) del cinema di genere western/hollywoodiano di quegli anni: bianchi/buoni ed indiani/nemici. Col tempo questo stereotipo sarà abbandonato e Ford adotterà una nuova politica immaginaria: quasi una presa di coscienza dei veri valori dell’America, da sempre nascosti nella spettacolarità di consumo dell’America del cinema classico.

Voto: 80%

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Un film da riscoprire e da apprezzare nonostante non sia ai livelli dei suoi capolavori.

John Wayne.

Gli scontri con gli indiani.

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Non è il “tipico western fordiano”, ma è intriso di parecchio melò e questo potrebbe stancare gli amanti del suo cinema più classico.

Non ha un grande ritmo, come vuole spesso la tradizione melodrammatica.

<Stefano Tibadi>


21 Grammi

Benicio-Del-Toro“Quante vite viviamo? Quante volte si muore? Si dice che nel preciso istante della morte tutti perdiamo 21 grammi di peso. Nessuno escluso. Ma quanto c’è in 21 grammi. Quanto va perduto? Quando li perdiamo quei 21 grammi? Quanto se ne va con loro? Quanto si guadagna? 21 grammi, il peso di cinque nichelini uno sull’altro. Il peso di un colibrì, di una barretta di cioccolato. Quanto valgono 21 grammi?”

Un breve istante può cambiare la realtà di tre persone. C_54_eventoCorrelato_2474_img_articoloLa pellicola, in toto, è un collage di temi: la ricerca di una vita nuova, la lotta contro il dolore, contro l’amore disperato, contro la morte, contro la droga, contro Dio.
C’è angoscia, desiderio di vendetta, redenzione, dannazione, il peso/prezzo della colpevolezza/consapevolezza, la paura della morte, il dover vivere.
Le vite dei protagonisti sono cucite da un montaggio frammentato, inizialmente illogico, dove analessi e prolessi manipolano il tempo, mescolandosi incontrollatamente. Sean-Penn
Rodrigo Prieto, direttore della fotografia, carica la drammaticità degli eventi, con l’uso di inquadrature sporche, cambi veloci, riprese attaccate ai personaggi e primissimi piani sui volti, un realismo puro che riproduce l’inquietudine degli attori. C’è un continuo frammentarsi di vite che si intersecano in un unico e naturale fluire.
Alla fine, però, tutto torna e la vicenda fatta a pezzi torna a comporre il puzzle.
Ognuno dovrà, volente o nolente, accettare il nuovo destino:
la morte, il rimorso, la solitudine.

Un numero, che ci urla qualcosa nelle orecchie.
Storie intrecciate dal Caso, dall’Evento: quell’incidente
[dal lat. in-càdere, che cade (..dall’alto)]
Dall’alto, come un dono di Dio.
Un dio invocato più volte per tutta la durata del film,
che tradisce e castiga in nome della sua bontà.

Dio dàDio toglie.

Voto: 84%

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– Cast adeguato ai ruoli
– Cinepresa a mano
– Finale (..o inizio?)

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– Quasi incomprensibile nella prima mezz’ora
(..è come un’overdose di flashback e flashfoward)
Charlotte Gainsbourg


Sonia Colavita|


The Grand Budapest Hotel

Una Matrioska matematicamente perfetta. Una ragazza si accinge a leggere un libro. L’autore del libro, ovvero l’ultimo gestore del Grand Budapest Hotel, riporta a sua volta il racconto del proprietario, che, attraverso l’ennesimo salto temporale, ci farà rivivere un’avventura ai confini dell’immaginazione.

Tra fantasia e realtà, tra parodia e dramma, tra il ridicolo e il maturo, il film si sviluppa splendidamente risultando tutto e niente. La semplicità del racconto è tale da poter essere scambiato per un episodio della famiglia Adams. Ma la storia è farcita di personaggi meravigliosi e decisamente originali, che arricchiscono la trama in maniera esponenziale.

La continuità. Elemento essenziale nella criticità di questo capolavoro. Il film sembra essere un’unica grande scena. Carrellate infinite, pochissimi tagli, cambi repentini di inquadratura, ma mai discontinui. Rotazioni di novanta o centottanta gradi che esaltano la simmetria di una regia eccezionale e vista in rare occasioni. Chiunque abbia un po’ di esperienza può riconoscere subito dei chiari riferimenti tecnici al Kubrick di Shining e di Barry Lyndon. Le musiche seguono perfettamente il ritmo tamburellante del film, le scene d’azione ricordano Sin City. Ma, al contrario del film di Rodriguez, siamo di fronte ad una violenza simpatica, oserei dire quasi gradevole ed in sintonia con il patetismo sintomatico dei personaggi coinvolti.

Una bolla di fantasia che colpisce attraverso una simmetria maniacale. Ogni inquadratura è studiata, preparata con cura a volte addirittura eccessiva. Non si può non essere affascinati dal fatto che gli unici elementi di NON-simmetria siano le azioni dei personaggi (vivi!!!). Come a sottolineare il fatto che la vita sia l’unico elemento caotico in un mondo governato da leggi e regole matematicamente perfette, e, nell’istante esatto in cui si cessa di vivere, si entra a far parte di quella simmetria noiosa ed al tempo stesso scontata.

Wes Anderson si conferma uno dei registi più talentuosi dell’era moderna e ci regala una perla artistica ed emotiva che difficilmente andrà perduta nelle curve della memoria. Un puro e semplice “raro” capolavoro.

Voto: 100%

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– La simmetria “fatta” regia (o la regia “fatta” simmetria)

– Personaggi unici

– Cura maniacale per ogni singolo particolare

– Il riferimento “chiaro” a moltissime altre opere

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– Il riferimento “chiaro” a moltissime altre opere

Stefano Cherubini

 


Dogtooth

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[Primi minuti]
Ho davanti agli occhi un affresco paralinguistico?

[Metà abbondante]
Un film che parla delle solite cose ma senza le solite cose?

[Conclusione]
Un’educazione che tenta di negare il negativo non può che portare a un’esasperazione delle tensioni negative.

.

[Poi..]

Eppure non è una realtà senza polo negativo, quella nella quale i genitori hanno educato i loro figli!
C’è il dolore e il timore e la vergogna e il dissenso e..
..è SOLO una realtà diversamente-polarizzata (che significa una realtà semplicemente DIVERSA).

Mente, il padre (mente l’autore, mente lo spettatore), nell’affermare che si tratta di una forma di “protezione dal male”.
[che è il presupposto etico su cui si fonda quasi tautologicamente l’idea di Educazione].
È il possesso, non la protezione, la cifra.
Ovvero la necessità di dominare un proprio mondo nel Mondo.
Il padre non mente per proteggere la sua famiglia, ma per proteggersi dall’instabilità dinamica del mondo esterno,
dal contatto imprevedibile con l’Altro.
Ha fatto sì che tutto coincidesse così precisamente con la sua volontà a tal punto da non dover neppure segregare la sua famiglia all’interno della casa. Gli è bastato educarli affinché fossero loro stessi a desiderare di non voler uscire.

Perfino la ribellione trova spazio e tempo e modo nello stesso contesto rituale che vorrebbe trascendere.
Senza estirpare violentemente il dente e senza un veicolo sul quale percorrere il mondo esterno, per la ragazza non è possibile fuggire. Senza quegli atti paradossali di fede, anzi, non esiste nemmeno, per lei, il pensiero di una fuga né il concetto di abbandono.

Dovremmo sussultare, davanti a un saggio così limpido di Educazione!

Non c’è differenza sostanziale (se non in termini artistici) tra quello che i figli, nel film, credono di dover sapere e di dover fare e quello che qualunque figlio, crescendo, ha creduto di dover sapere e dover fare.
Ai due poli non ci sono educazione e maleducazione.
Piuttosto, da un lato, l’ineducazione (che progressivamente si assottiglia) e, dall’altro, una delle molteplici forme di educazione possibili (che progressivamente si cristallizza).

“Vogliamo un animale o un amico?”
chiede l’addestratore di cani.
La domanda riecheggia per l’impossibilità di comprenderla.
Gli “zombie” sono fiori gialli, il “mare” è una sedia, la vagina è una “lampada”.
Eppure a spiazzare è la distinzione antitetica tra “animale” e “amico”, perché operata con pieno coscienza
e pieno possesso linguistico.
Ma “animale” è l’essere ineducato e incontrollabile..oppure la creatura pienamente dominata dall’educazione?
E “amico” è il mio indistinguibile omologo..oppure è l’Altro, pienamente distinto e autenticamente distante?

[Poi torno a guardare la locandina..
..una sinusoide che, nella sovrapposizione con un’altra forma, si presta ad una serie di allusioni..
..grafiche..(..due denti..)..semantiche..(..concavo e convesso..)..]

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Voto: 85%

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– Pieno di suggestioni
– Essenziale

[-]

– Cast anonimo
– Tecnicamente debole

|SF|


Ragazze Interrotte

Avete mai confuso un sogno con la realtà? Avete mai rubato qualcosa pur avendo i soldi in tasca? Avete mai pensato che il vostro treno si muovesse, mentre invece eravate fermi? Forse ero solo pazza, forse erano gli anni Sessanta. O magari ero solo una ragazza,
interrotta.

[…]
“Ma che cosa hai fatto?”
– ..cosa?
“Che cosa hai fatto? Sembri normale..”
– Ah, io.. Sono triste.
[…]
“Benvenuta a Claymoore, Susanna.” 

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In soli 13 minuti e poco più, siamo già catapultati nella nuova straniante realtà della protagonista, un presente mescolato ai suoi continui flashback.
Susanna:
“Tu non sei pazza. Tu sei soltanto una ragazzina viziata ed egocentrica che ci si manda da sola al manicomio. Ti stai solo buttando via.”
È la protagonista che “vive al contrario”, da donna-ossimoro, confusa e sicura a donna-immagine di Lisa, alla ricerca di un ruolo che non è il suo. Nel complesso, però, è l’unica che concretizza la sua vera risalita.
Lisa, la ribelle sociopatica:Girl-Interrupted-girl-interrupted-11490129-1893-1500
“Il rasoio fa male,
il fiume è troppo basso,
l’acido è bestiale,
la droga dà il collasso,
la corda si spezza,
la pistola è proibita,
il gas puzza e allora
viva la vita.”
Ragazze malate o presunte tali (..quando la malattia si configura come unica via di salvezza, come unico modo di stabilire la propria posizione nel mondo), circondate da finti psicologi e una sola infermiera (la grande Whoopi Goldberg), che capisce le pazienti meglio dei dottori. Ragazze interrotte, a metà tra due mondi: quello che vorrebbero o quello che si sono create nella loro testa e quello reale.

Dall’esordio corale del film (che si perde con la progressiva ed esclusiva focalizzazione su Lisa e Susanna), le protagoniste (esclusa Susanna) crescono in maniera unidirezionale, insieme ai loro limiti, riescono solamente a scavalcare quel filo spinato che ha interrotto le loro vite, senza però tagliarlo (..anzi, qualcuno deciderà addirittura d’avvolgersi attorno al collo quello stesso filo..
..ma:
“Quando ti rifiuti di soffrire, la morte ti sembra una specie di sogno. Ma vedere la morte, vederla fisicamente ti fa capire che sognarla era una cosa ridicola..”)
L’ultima parte del film, corrisponde al momento in cui Susanna riconosce la propria divisione mentale, comincia a guardare di nuovo con gli occhi di un tempo, è questo ciò che serve per sconfiggere la propria malattia, per non rifugiarcisi più dentro.
Questo però non può far altro che generare un conflitto con le altre ragazze del gruppo e, soprattutto, con Lisa, l’alter ego di Susanna (..il nemico?).
“Gli occhi di Lisa, un tempo così magnetici ora sono soltanto vuoti.”
– Cosa stai cercando di fare?angelina-jolie-winona-ryder-girls-interrupted_hg_temp2_s_full_l
“La parte della cattiva, amore. Come vuoi tu.”
– Ma perché devo volerlo?
“Perché ti fa sentire buona, piccola mia.”
[…]
Lisa: “Credi di essere libera? Io sono libera! Tu neanche lo sai che cos’è la libertà.
Ci sono troppi muri nel mondo, troppi muri contro cui spingere la gente, e c’è troppa gente che chiede di essere spinta, gente che ti implora di essere spinta, ti scongiura di spingerla contro il muro e allora io mi domando: perché nessuno ci mette me con le spalle al muro, perché nessuno mai mi allunga una mano mi strappa fuori la verità e mi dice che sono solo una puttana e che i miei genitori vorrebbero che fossi morta!?”
Susanna: “Perché tu lo sei già morta, Lisa!
Non interessa a nessuno se tu muori, perché è da tanto che sei morta.

Ho sprecato un anno della mia vita. E magari lì fuori sono tutti bugiardi. E magari tutto il mondo è stupido e ignorante, ma io preferisco essere lì fuori.”

Voto: 78%

[+]

– Cast
(..nello specifico, straordinaria interpretazione delle protagoniste: Angiolina Jolie e Winona Ryder)
– Dialoghi

[-]

– Estro fotografico totalmente assente.

[+/-]

– L’impatto col film può essere (anche) determinato dallo status emotivo dello spettatore
(..da: “So cosa significa voler morire e che sorridere fa male. E che ci provi ad inserirti ma non ci riesci. Che fai del male al tuo corpo per cercare di distruggere la cosa che hai dentro.”
In un processo di identificazione: chi mi sento di essere? Lisa o Susanna?
a: “La follia non è essere a pezzi o custodire un oscuro segreto. La follia siete voi o io, amplificati.”

..e non viceversa, speriamo.)

Sonia Colavita|


Ratatouille

La meraviglia che ci attraversa durante la visione di Ratatouille è qualcosa che non si può descrivere, non a parole, non attraverso un mezzo di comunicazione tradizionale. Bisogna accettarlo e rendersi conto che si è appena visto uno di quei film che lacerano l’animo umano, senza capirne bene il perché. Quando si resta affascinati e basiti di fronte alle mille espressioni del topolino Rémy e di suo fratello Emile, non si può far altro che arrendersi ed ammettere che la Pixar ha già vinto appena dopo qualche minuto. Ma è l’idea di base ad essere vincente: l’umanizzazione del topo attraverso l’esaltazione della cucina, dei gusti e degli odori.

E così, in un viaggio interminabile che porterà il piccolo chef alla conquista di Parigi, ciò che stupirà di più sarà l’atmosfera magica e reale al tempo stesso di una città in decadenza, come il ristorante del grande chef Gusteau. L’esaltazione della dinamicità è incredibile, il film non è mai stantio, mai immobile, sempre in movimento con una fantasia che cattura ogni cosa. Si trattiene il respiro ogni qual volta il piccolo topolino deve destreggiarsi tra un tavolo e l’altro in una frenetica serata culinaria. La sceneggiatura è succulenta e stuzzica lo spettatore, mai banale, mai riciclata. I legami narrativi funzionano alla perfezione, tanto che l’opera ci sembrerà più corta di quello che è in realtà. E questo soltanto perché ci si vorrebbe rilassare ancora nel guardare una storia così meravigliosa. E ad un certo punto ci chiediamo: “Ma davvero i topi sono creature così disgustose?…Forse non sono poi tanto male, magari ne metto uno in cucina…!!!”.

Questo succede di fronte all’immenso capolavoro Pixar. Ci si distacca completamente dalla realtà, tanto che la cosa cosa più umana e reale del film (l’intreccio amoroso “umano”) viene sminuito di fronte al rapporto Uomo-Ratto. Già, perché malgrado nella traduzione italiana ci si riferisca sempre ai topi, in realtà, nella versione originale, si parla solo ed esclusivamente di ratti, e sfido chiunque a pensare, anche solo una volta nella vita, che un ratto possa essere “dolce” e “affabile”.

Senza ombra di dubbio il vero grande capolavoro Pixar, un gradino sopra a Toy Story, che pur ci ha raccontato una storia favolosa. Ma il topolino (si…non ce la si può fare a chiamarlo ratto) Rémy è davvero irresistibile. Ed in fin dei conti “Chiunque può cucinare”,  perché potrebbe esserci un genio in ognuno di noi…

…Ora scusate, ma il mio “topo-chef” ha appena finito di prepararmi la cena.

Voto: 100%

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– Visivamente splendido

– Narrativamente eccelso

– Personaggi disegnati su misura

– Alla fine del film potreste cambiare idea sui ratti

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– Alla fine del film potreste cambiare idea sui ratti

Stefano Cherubini