Di certo non si può dire la svolta poetico/stilistica di Paolo Virzì non abbia portato nuova e fresca linfa alla sua filmografia che forse stava giungendo al giro di boa.
Quest’ultima opera è uno specchio crudele ma veritiero dell’Italia dei nostri tempi: una nazione la cui autostima, grandezza e credibilità sono state messe a dura prova dalla crisi. I personaggi che si muovono nell’universo simil-noir creato da Virzì sono tutti vittime sacrificali del fardello pestifero della tremenda crisi.
Nessuno si salva e nessuno dunque può rimanere immacolato in un miasma di ansie e paure che. volenti o nolenti; ci imbrigliano e ci fanno reagire di conseguenza.
E’ quello che fanno tutte le maschere grottesche ma assolutamente riuscitissime che popolano il film: ognuno reagisce per un effetto causale e la reazione determina altri azioni che pian piano ci offrono tutto il quadro della vicenda. Si perché l’intreccio non è subito chiaro fin dal principio (cosa curiosa e oserei dire sperimentale per il nostro cinema mainstream).
Il film si apre splendidamente con una carrellata in dolly che finisce per inquadrare un cameriere. All’apparenza costui sembra un personaggio di contorno, inutile ma di lì a poco si scoprirà essere un mac guffin (nella pura accezione hitchcockiana) antropomorfo che fungerà da vettore drammatico per tutti o quasi i destini dei personaggi.
La narrazione è divisa in quattro capitoli, ma è solo l’ultimo di questi che ci fa procedere nella narrazione; nella misura in cui gli altri tre non sono altro che gli stessi eventi ma visti da un punto soggettivo di volta in volta differente. E la scelta quasi avanguardistica (conoscendo il suo cinema da sempre lineare) di Virzì è assolutamente funzionale per innescare immediatamente i processi cognitivi tanto cari a David Bordwell: lo spettatore, ad ogni ri-narrazione, deve rivedere e rifare le proprie congetture per arrivare al noccciolo della vicenda. E’ chiaro che l’elemento suspence è arriccchito ad ogni nuovo inizio della vicenda.
Voto: 78 %
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La scelta narrativa.
La volontà di rinnovare la propria poetica autoriale parlando dell’Italia di oggi senza sottolineare il lato comico.
La regia.
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Gli attori non sono sempre all’altezza della situazione.
Ci sono forse troppe pause che spezzano il ritmo.
>Stefano Tibaldi<