Cinquanta sfumature di grigio

Wat8

Ma credevate davvero che avremmo recensito questo film? Onestamente, ho provato a guardarlo, ma non sono riuscito ad andare oltre i 600 secondi (ovvero 10 minuti in forma “stilosa”). Nonostante questo, voglio provare ad elencare dei punti positivi e negativi.

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Qualsiasi altro film vedrete dopo di questo vi sembrerà il capolavoro del secolo.

Se avete voglia di provare a buttarvi nel mondo del Cinema ma avete paura di fare una figuraccia, la visione di questo film potrà rincuorarvi, perché tanto peggio di cosi non potrete assolutamente fare.

Meglio di un sonnifero.

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Ho perso già troppo tempo elencando una serie di punti positivi. Quelli negativi trovateli da soli, tanto non farete alcuna fatica.

Questo simpatico [speriamo] siparietto è in realtà una sorta di annuncio del ritorno delle nostre recensioni dopo alcuni mesi di inattività. Inoltre, questa “particolare” recensione inaugura la categoria dei “Film da evitare anche in caso di epidemia Zombie”. Per seguire i nostri consigli su quali siano i “film” da evitare assolutamente, seguite la nostra pagina facebook About Cinema dove aggiorneremo questa lista in modo che possiate scegliere i vostri film senza incappare in scivoloni disastrosi.

Speriamo che il nostro ritorno vi sia gradito e vi diamo appuntamento alla prossima settimana, stavolta con una VERA recensione.

Lo staff di About Cinema

(Non saprete mai chi di noi abbia provato questa titanica impresa)


Post Tenebras Lux

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Partorito lungo il confine esatto tra il Tutto e il Nulla
Post Tenebras Lux è, prima che un film, un esperimento critico:
la prova lampante che ognuno vede ciò che sceglie di vedere
[o almeno,
questo è quello che Io, in esso, ho scelto di vedere].

Sempre saldamente collocato nelle circostanze della sua osservazione.
Un Qui-ed-Ora invalicabile, oltre i bordi del quale tutto si defocalizza
(non solo i bordi spaziali dell’inquadratura, palesemente sfocati, ma anche i bordi temporali, malcelati in una diffusa opacità narrativa).

Un cinema che offre senza dare e dire.
Prossimo a un realismo talmente convincente da essere, come il Reale,
irrimediabilmente sorprendente-e-ripetitivo, nuovo-e-antico, denso-e-vacuo.

Quindi tutto è significativo/Quindi tutto è insignificante.
(Mucca, Cane, Mamma, Papà, Sesso, Hegel, Duchamp..
..Sono Nomi..
..o solo nomi?)

Meraviglioso..
(l’incipit, come numerose altre scene..laddove l’estro fotografico trasmuta in soggetto protagonista)
..se il perdurare di questa esemplificazione non finisse per ingoiare l’opera stessa in sé stessa.
Compressa nell’istante, ostinatamente in apnea, respira solo a tratti, nelle pause, suo malgrado.

Il finale è un grido straziante, che raccoglie e raccorda e amplifica il sussurro diffuso di ciò che Esiste.
La testa (per sua volontà) sradicata dal corpo, mediante il corpo.
Una sola prospettiva non basta, il mio Me è troppo poco per compendere (Ecco, le Tenebre).
Accetto, quindi Rinuncio (Ecco, la Luce).
Torno ad essere Nulla,
quindi Tutto (Ecco).

Voto: 50-e-90

|SF|


Frankenweenie

Fedelissimo al cortometraggio omonimo del 1984 dello stesso regista, Frankenweenie è una delle (ormai numerose) favole contemporanee ben riuscite di Burton.  tumblr_m5wwhzWqxK1r4dujuo1_500
Sotto cieli cartoonistici e tempestosi dalle tinte vintage degli anni 80, il film concentra i suoi elementi di forza su due punti tecnici paralleli (oltre che contenustici): Eros e Thanatos sotto il profilo di atmosfere e personaggi ben calibrati.
Victor è un bambino particolare, facente parte di quella bizzarra innocenza tipicamente Burtoniana. Estremamente timido e sensibile, preferisce la scienza e gli esperimenti agli interessi comuni dei suoi coetanei, aspetto che lo porta inevitabilmente all’isolamento (..ma anche alla stima!).
Sparky è un bambino mancato a quattro zampe. Una creatura che, a differenza del mostro classico di “Frankenstein” ha già un nome. Sparky è già un’identità che viene riportata in vita dal consolidamento dell’amore da parte di Victor, proprio come accadrebbe in chimica con un passaggio di stato, da quello aeriforme (dell’affetto) a quello solido (della vita) e la variabile emotiva è determinante (..come ci ricorda il professore in uno dei dialoghi più belli del film). FRANKENWEENIE
Assai facilmente rintracciabili (..almeno per chi conosce gran parte del patrimonio culturale sul tenebroso, cinematografico-e-non) sono le numerose citazioni disseminate in tutto il film. Dalle prime scene in cui il personaggio di Strenella è un chiaro rimando a “La bambina che fissava” del libro di Burton stesso “Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie”, al manto della cagnetta di Elsa (Persefone, regina dell’oltretomba) palesemente ispirato alla capigliatura tratta da “La moglie di Frankestein”; dalla tartaruga di nome Shelley che rievoca il cognome dell’autrice del libro “Frankenstein” (di Mary Shelley appunto) alla scena finale nella cabina telefonica circondata dalle scimmie acquatiche con un riferimento evidente a “Gli Uccelli” di Hitchcock, per non citare la lunga serie di meta-mostri finali in cui Sparky si configura proprio come l’alter-Frankenstein, le scimmie di mare ricordano i Gremlins, Colossus la mummia, etc..
L’amalgama di bianco e nero, stop-motion e sfumature dark propriamente grottesche rendono il film tecnicamente impeccabile per il suo raffinato ma tenero gusto per l’orrido. FRANKENWEENIE

Risultato: i bambini si divertono, gli adulti si commuovono.

Voto: 100%

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Bianco e nero
Stop-motion
Temi, cura e realizzazione dei personaggi

Sonia Colavita|


Looper

Looper

Diciamolo subito: Looper è un gran bel film. Nel complesso funziona, è ben realizzato, presenta un cast all’altezza ed una trama complessa (ma non eccessivamente) che riesce a catturare l’attenzione dal primo all’ultimo istante. Però, contrariamente alla maggior parte delle opere, una seconda visione porta a riconsiderare (in termini negativi) l’impressione globale sul film. Ci si trova a dover fare i conti con delle incongruenze (temporali e non) che minano seriamente la qualità complessiva del film. Per evitare di inserire spoiler a metà articolo, parleremo di queste incongruenze soltanto alla fine, discutendone ampiamente e fornendo anche delle soluzioni alternative.

L’Incipit del film è possente: “I viaggi nel tempo non sono ancora stati inventati, ma tra trent’anni lo saranno. Saranno subito fuori legge, usati solamente in segreto dalle più grandi organizzazioni criminali. È quasi impossibile liberarsi di un cadavere nel futuro… l’ho detto. Applicazione di un sistema di controllo elettrico, cose del genere. Quindi quando queste organizzazioni criminali nel futuro hanno bisogno che qualcuno sparisca, usano degli assassini specializzati che nel nostro presente vengono chiamati “Loopers”. E quindi i miei datori di lavoro del futuro prendono il bersaglio, lo trasferiscono a me, il loro Looper, egli appare, mani legate e la testa dentro un sacchetto e io faccio quello che bisogna fare. Raccolgo il mio argento. Così l’obiettivo è sparito dal futuro e ho appena eliminato un corpo che tecnicamente non esiste. Pulito“. Si aprono immediatamente una serie di domande (che purtroppo non riceverrano sempre risposte brillanti), ma sfido chiunque a non essere quantomeno incuriosito dagli sviluppi narrativi che seguono ad una tale introduzione.

Il film è scorrevolissimo, e, nonostante la complessità della trama, non si dilunga in “spiegoni” alla Matrix che avrebbero appesantito (e non di poco) la gradevolezza dell’opera. Si percepisce la delicatezza del tema affrontato (il viaggio nel tempo), ma non si rischia mai di perdersi nella moltitudine di eventi che si susseguono sulla stessa linea temporale…e questo è senza dubbio un grande pregio del film. Al di là di tutti i difetti che si possono riscontrare e che annunceremo a breve, il film contiene l’essenziale. Tutti i dettagli superflui vengono abbandonati e ben presto ci si dimentica di chiedersi il perché di certi avvenimenti (che restano secondari rispetto alla questione centrale del film). Ad esempio, quando il Looper del futuro ci mostra una serie di indizi sull’identità dello Sciamano, vengono impiegati trenta secondi per fornire una spiegazione approssimativa di come abbia ottenuto quelle informazioni. Semplicemente perché la questione non è rilevante, non interessa, si vuole tenere l’attenzione concentrata sul Loop (e di conseguenza sul Looper). Del resto, se l’obiettivo è quello di confezionare un’opera di due ore che riesca a sviluppare una trama complessa, è inevitabile che qualcosa debba restare fuori, visto e considerato che il film in questione non spinge poi troppo sulle scene d’azione. Sono ben presenti, ma non si dilungano molto e non danno mai l’impressione di sottrarre minuti preziosi ad una ulteriore spiegazione. Insomma, il tempo, a mio avviso, è stato distribuito perfettamente.

Ora citerò tre punti, in ordine di importanza, che mi porteranno a parlare di ampie parti del film. Se dovete ancora vederlo (e siete intenzionati a farlo), vi consiglio di saltare direttamente alle battute finali della recensione.

1) Nella parte centrale del film il Looper vecchio ci spiega molto chiaramente come le azioni del presente abbiano ripercussioni sul futuro (ovviamente!!!). L’originalità sta nel fatto che, nel momento in cui alcune azioni del presente dovessero cambiare eventi futuri, i ricordi del Looper vecchio verrebbero modificati in conseguenza al nuovo futuro che è stato scritto. Il ragionamento è abbastanza convincente dal punto di vista “fantascientifico”, salvo che, una ventina di minuti prima, un altro Looper subisce una mutilazione per facilitare la cattura del suo vecchio Looper sfuggitogli durante l’esecuzione. La mutilazione degli arti sul Looper presente si traduce in una mutilazione degli arti nel Looper futuro, tanto da convincerlo a consegnarsi per evitare ulteriori torture. Ora la domanda è: lo stesso uomo, mutilato nel presente, avrebbe scritto lo stesso identico futuro in modo tale da poter essere spedito indietro nel tempo e sfuggire al suo giovane Looper? E se le azioni del presente modificano i ricordi nel futuro, per quale motivo il Looper vecchio è sorpreso nel trovarsi improvvisamente senza dita? Del resto dovrebbe conservare ricordi trentennali sulle sue mutilazioni. In realtà, questa “falla” è quasi del tutto superflua. Si sarebbe potuta semplicemente evitare facendo sparire il vecchio Looper dopo la mutilazione di alcuni arti, spiegando a posteriori l’accaduto, ma in fin dei conti non crea nessun vuoto successivo alla storia.

2) Il Looper vecchio decide di tornare indietro nel tempo per uccidere lo Sciamano, sperando di evitare la morte di sua moglie nel futuro. Ora, se nel futuro gli omicidi sono praticamente impossibili, come mai gli uomini dello Sciamano uccidono la moglie senza remore? Anche qui, sarebbe bastato far tornare il Looper indietro nel tempo con un altro pretesto, per esempio quello di voler uccidere lo Sciamano a causa dei suoi tanti crimini commessi e della situazione insostenibile creatasi nel futuro, ma anche in questo caso l’errore narrativo non risulta poi così rilevante.

3) Infine il vero nodo centrale del Loop. Nel finale (altamente spettacolare) il giovane Looper capisce (tramite un flashforward) che è stato lui a creare lo Sciamano, facendogli assistere alla morte della madre. Decide quindi di uccidersi per interrompere questo eterno Loop, cambiando una volta per tutte il futuro. Il problema di base è: in principio, chi ha contribuito a creare lo Sciamano? Il vecchio Looper, motivato dall’evitare la morte della moglie, torna indietro nel tempo per uccidere lo Sciamano, ma questa è una conseguenza dovuta all’esistenza dello Sciamano stesso. Dunque, in un primo momento ci deve essere stato qualcosa o qualcuno che abbia spinto il bambino a diventare un potentissimo criminale, ma, sicuramente, non può essere stato il vecchio Looper, come ci viene fatto capire nei minuti finali. Insomma, un problema di fondo che la narrazione su un’unica linea temporale non aiuta di certo. Si potrebbe supporre che, qualsiasi cosa avvenga, lo Sciamano sia destinato a divenire tale, ma a questo punto cadrebbe miseramente il significato del film. Dubito che i realizzatori non abbiano considerato questa problematica della trama, e capisco anche che risolvere questo dilemma rimanendo su un’unica linea temporale non sia per nulla facile. In realtà, ciò che non è ben chiaro è se l’universo del film sia deterministicamente compiuto oppure no. A mio avviso, sarebbe forse bastato far terminare il film con una serie di quesiti su questo enorme paradosso oppure inserire un supporto di realtà parallele che spiegasse l’origine del loop. Del resto, riuscire a fornire una spiegazione logica ad un loop creato da un viaggio nel tempo è estremamente difficile.

Potremmo stare a discutere ore sulle piccole incertezze della trama, ma non è questo l’obiettivo e non ne vale veramente la pena. Personalmente, credo che ci siano due differenti modi di visionare Looper: in maniera spensierata godendosi la complessità e il funzionamento “globale” della trama, oppure una visione sviscerante che analizzi ogni angolo del film. Se optate per la prima, aggiungete anche 10 punti percentuali al voto finale.

Voto: 77%

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Film notevole in senso “globale”

Ottimo cast

Trama appassionante e convincente…

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…ma che trova nel paradosso temporale finale il grande punto debole del film

Stefano Cherubini

 

 

 


Locke

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“Un film (quasi) interamente ambientato in un abitacolo”
C’è solo una domanda possibile, obbligatoria tanto per l’autore che arriva a concepire questo genere di film, quanto per lo spettatore che ne viene a conoscenza ed è intenzionato a osservarlo:
Riuscirà a non essere noioso, ripetitivo, scarsamente significativo?
Nel modo in cui la realizzazione del film risponde a questa domanda, sta il valore fondante dell’opera.

Questo, prima e dopo la visione.
Nel mezzo, sta il film.

Il virtuosismo fotografico ammalia, fin da subito.
La danza di riflessi luminosi sul corpo dell’auto..
..i percorsi sommersi della trama che vanno a ricomporsi attraverso il gocciolìo paziente delle voci..
..il volto del protagonista che va ad incastonarsi in questo paesaggio.
Ogni aspetto è vestito d’un’essenzialità appagante.
Si sta tutti (e tutto), in qualche modo, afferrati, nel tepore limpido dell’abitacolo.

20 minuti.
E tutto è già chiaro. Tutto già inizia a ripetersi.
Tutto inizia già a finire, nel momento esatto in cui ci si attendeva che iniziasse.
Il tepore si lascia sedurre dal torpore.

È più o meno in coincidenza di questa cristallizzazione tecnica ed emotiva che iniziano a sfuggire anche le redini narrative.
Viene richiesto uno sforzo d’irrealtà inaudito per riuscire a rimanere ancora co-involti, ancora seduti, ancora Dentro.
Poco spazio e poca aria.
Da un lato, grossolane dinamiche psicologiche
(un uomo dalla vita inappuntabile, apprezzato e stimato e amato, che abbandona ogni certezza costruita nel corso della sua vita per assistere al parte di una donna che non ama in virtù di un senso di rivalsa nei confronti del padre..padre col quale immagina di parlare inveendo contro lo specchietto retrovisore!)
Dall’altro, insostenibili questioni edili
(un uomo al capolinea, licenziato da una multinazionale di Chicago, che continua a controllare lo sviluppo dei lavori di un enorme progetto di un enorme palazzo tramite un collega privo di competenze e autorizzazioni..per giunta semiubriaco..nel tentativo insostenibile di portare a compimento, da solo, un’opera monumentale che, a quanto pare, la sera prima dell’inizio dei lavori necessita ancora dei permessi necessari e dei controlli adeguati).

In questo contesto, diventa irrilevante perfino la prova di Tom Hardy.
Il suo volto rivela un potenziale espressivo continuamente disatteso dalle esigenze narrative.

Innegabile l’estro tecnico
(che si compie e consuma nei primi minuti senza ulteriori esiti).
Innegabile la bontà dell’idea.
Ma sono aspetti positivi che contribuiscono ad accrescere la certezza di un’occasione sprecata,
per un’opera che poteva e doveva essere ANCHE molto altro.

Voto: 75%

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L’idea di ambientare un film (quasi) interamente in un abitacolo
Un certo estro e un notevole fascino nelle scelte fotografiche

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Ridondanza diffusa
Debolezze narrative macroscopiche

[P.S.
È estremamente frequente,
per un guidatore mediamente sensibile,
sperimentare viaggi notturni, seppur meno radicali, senz’altro più intensi ed espressivi.
In questo senso almeno, con le sue innegabili (ma effimere) suggestioni, l’opera ha il pregio irrinunciabile di poter essere intesa come un apprezzabile suggerimento percettivo]

|SF|


Moonrise Kingdom

Moonrise_Kingdom

 

 

La semplicità è una materia complessa.
Spiazza, in positivo e in negativo, perché non rimanda ad altro, de-finalizza istantaneamente le intenzioni del corpo e della mente.
Non interrompe il movimento, ma intensifica la permanenza.
Si lascia contemplare.

In questa semplicità contemplativa consiste Moonrise Kingdom.
Due giovani che si scoprono a vicenda, specchiandosi nel desiderio pervasivo di stare assieme.
Il resto è necessità formale, cieca verbalizzazione, “adulteismi”.
La complessità è conseguenza diretta dell’impossibiltià di accettare una realtà così limpida, senza pieghe, insenature, ripari..
..ma di un’evidenza oceanica.

La metafora musicale è il manifesto percettivo più adatto.
In principio c’è la natura timbrica specifica di ogni strumento, nella sua nuda identità (arazionale, amorale).
L’interazione complessifica, produce un tessuto complesso di relazioni.
Ma di fondo, resta il richiamo all’esistenza del singolo, semplice suono, in sé perfettamente compiuto.

Il film è una cronaca disinteressata dell’empatia.
Un piccolo ma dettagliato campionario emotivo che resta però confinato al di là dello schermo, fungendo solo da “ambiente” per i due giovani protagonisti.
L’impressione è che (dato il senso dell’incipit di questa analisi) nel tentativo radicale di approssimarsi, in maniera semplice, alla semplicità, si sia perduto qualcosa nel confine opaco tra il semplice, il banale e l’insignificante.
Ma è un pensiero che sorge solo nel momento in cui, finito il film, “si torna” al linguaggio..(..l’Altro).
Voto: 80
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enorme Cura percettiva (caratteristiche fotografiche e musicali)
un Cast adeguato

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va preso ANCHE per quel poco che VUOLE ESSERE

|SF|


Mulholland Drive

Premetto da subito di non essere un grande fan di David Lynch. Considero le sue prime due opere (Eraserhead e The Elephant Man) i suoi capolavori, con una discesa verso il successo sempre più complessa e meno ricca di idee. Il film in questione, Mulholland Drive, potrebbe aprire dibattiti eterni sulle molteplici interpretazioni che gli si possono conferire, ma, in realtà, non sono poi molte quelle credibili e coerenti con gli eventi narrati.

Il film è diviso sostanzialmente in due parti: nella prima, un’attrice emergente arrivata ad Hollywood, piena di entusiasmo e sogni, entra in contatto con una donna misteriosa, che in seguito ad un incidente perde la memoria e cerca di ricostruire faticosamente il suo passato. Difatti, la prima storia non si conclude, lasciando aperti molti quesiti (soprattutto sul passato dimenticato). Le scene conclusive sono confuse e quasi fuori contesto (su tutte la scena dello spettacolo spagnolo).

Il passaggio dalla prima alla seconda storia avviene tramite una sorta di cubo magico, il quale, una volta aperto, ci catapulta in una nuova realtà. Qui comincia una storia del tutto differente, con le stesse protagoniste della prima a ruoli pressapoco invertiti. Questa volta la storia si conclude: una storia di amore, odio ed invidia che sfocierà nel dramma più assoluto.

In realtà, il nocciolo del film è tutto nel passaggio tra una storia e l’altra. Premesso che non possa trattarsi di due eventi che si susseguono in ordine cronologico (sarebbero troppe infatti le incongruenze temporali), ci si può sbizzarrire nel fornire spiegazioni più o meno credibili: la prima Storia è un sogno? O è frutto dell’immaginazione della giovane attrice? Nella seconda vicenda vediamo come si sono svolti realmente  gli eventi? Tutto molto probabile e allo stesso tempo troppo semplice. Cerchiamo di andare più a fondo: se fosse vera una delle ipotesi appena citate, per quale motivo vengono inseriti all’interno del contesto oggetti misterioso (il cubo magico) e personaggi indecifrabili (il Cowboy, tanto per citarne uno)? Si potrebbe provare ad interpretare il cubo come una sorta di ponte tra due realtà parallele, che potrebbe conferire anche un certo tono di complessità al tutto, ma sinceramente non vi è alcun riferimento successivo che possa avallare questa ipotesi, né tanto meno motivazioni chiare per poterla escludere…E allora ci si chiede: qual’è l’obiettivo di Lynch? Creare una storia (doppia) che abbia diverse interpretazioni? O un’unica storia complessa con un unico significato (indecifrabile)? In tutti e due i casi, a mio modo di vedere, l’obiettivo non viene centrato. Nessuna esplicazione soddisfa in pieno ciò che vediamo scivolare sullo schermo e sinceramente, anche se ci fossero dei riferimenti difficilissimi da cogliere, non è comunque un cinema che mi sento di approvare o esaltare. Un film in sé deve essere completo e soddisfacente nella sua interezza. Se poi il regista si vuole divertire ad inserire una serie di riferimenti di una profondità “bestiale” (come in Shining), è liberissimo di farlo; ma, prima di tutto, una trama che si rispetti deve reggersi su sé stessa, deve restare comprensibile al pubblico anche se non si è visto un solo film dell’autore o non si conoscono le sue influenze, che potrebbero averlo portato a fare un certo tipo di scelte. Sono tutti dettagli che arricchiscono la struttura di un film, ma che non possono in alcun modo inficiare la comprensione globale dell’opera. Sarebbe come portare su grande schermo un film tratto da un libro e non inserire alcuni elementi fondamentali alla comprensione globale, fornendo una chiave di lettura completa solo a coloro i quali abbiano letto l’opera iniziale.

Ultima critica, senz’altro la meno importante, sulla realizzazione tecnica. In alcuni tratti sembra davvero di rivedere Twin Peaks, con la differenza che quest’ultimo è stato girato all’inizio degli anni ’90 e Mulholland Drive ad inizio anni 2000. Sarebbe stato poco rilevante nel caso in cui l film avesse presentato una trama coinvolgente e completa, ma visto che non è cosi, almeno a mio parere, gli effetti speciali danno ancora più un senso di frustrazione ed incompletezza che delineano un regista privo di idee e di contenuti, in un film che, tutto sommato, anche nelle storie che racconta, rimane banale e mai sorprendente.

Voto: 65%

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E’ un film che può creare un dibattito enorme

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Confuso e Incompleto

Povero di contenuti, soprattutto nella trama

Realizzazione tecnica da film di serie B

Stefano Cherubini


May

Le psicosi adolescenziali e le sue più tetre manifestazioni si incarnano perfettamente nel film di Lucky McKee. Precisiamo immediatamente: questo interessante regista fa un horror assolutamente poetico, a tratti brutale (vedi The woman) ma mai banale e stereotipato.

Il suo cinema è innanzitutto cinema che fa dell’horror un mezzo per raccontare i disagi della società e soprattutto degli adolescenti che lottano con i mostri della loro mente.

Questo May del 2002 è un gioiellino che innanzitutto funziona grazie alla sua sua inquietante e sfortunata protagonista: May appunto. E’ una ragazza strabica che ha come unica sua amica una bambola modellata artigianalmente dalla madre. Questa bambola sembra essere la versione homunculus di May.

E’ probabilmente il suo vero aspetto: mostruoso, malefico e psicotico. Questa bambola è in una teca di vetro: non è un caso che una volta che la teca verrà distrutta e la bambola fatta in pezzi la follia tenuta difficilmente a bada straborderà nella realtà esterna.

Per compensare la perdita del suo feticcio simil/antropomorfo, May ricomporrà un bambola con pezzi di corpi umani che lei considera perfetti, in modo da creare un essere perfetto in grado di amarla sia come amica/o che come compagna/o (quasi subito il regista mette in mostra l tendenza bisessuale della ragazza), andando a creare una sorta di mostro di Frankenstein androgino.

Due scene veramente egregie da segnalare: la rottura della bambola per opera di una masnada di bambini non vedenti e la scena finale.

Voto 80%

 

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Regia.

Interpretazione della protagonista.

Le due scene sopracitate.

 

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Narrazione e dialoghi sono, in alcuni momenti, un po’ troppo lenti e sfiorano la stucchevolezza.

 

>Stefano Tibaldi<

 


Elephant

“Un giorno qualunque di scuola superiore. Peccato che non lo è.”

Quella di Gus Van Sant è l’opera del “non-spiegato”Elephant
Una realtà setacciata direttamente dai protagonisti del film. Un collage ripetuto di tanti sguardi specifici sotto l’uso della steadycam.
Il risultato è automatico, l’approccio realistico determina una narrazione diretta degli eventi che si susseguiranno nell’arco di questa sola ed unica giornata. La realtà che ci appare è prismatica, frammentata dalle tante visioni. Sullo schermo sono proiettate sempre le stesse scene a seconda dei singoli punti di vista.
Queste differenti soggettive suggeriscono un chiaro isolamento delle varie identità dei personaggi che si presentano solo uno alla volta.
L’incredulità è il sentimento comune a tutta la durata del film (..e anche dopo l’epilogo continueremo a non capire in che modo una mattinata qualunque possa diventare teatro di una sanguinosa strage in così breve tempo).
Ci assale l’inspiegabilità del “non-visto”, l’incomprensibile follia di un progetto simile che in soli 80 minuti vede contrapporsi al minimalismo di azioni quotidiane un’agghiacciante risvolto.
“Elephant” è paragonabile ad una grande fotografia-documentario e noi siamo gli spettatori dei piccoli dettagli che vengono fuori con l’accurato uso di un super-zoom. La fotografia si regge su continui cambi di intensità in linea con i cambi di luogo, inquadrature ed atmosfere (..sebbene ci siano molte costanti visive: la natura, il giallo..) Elephant_1
Il tempo è stagnante, connesso all’incomunicabilità propria di tutti i protagonisti. La telecamera a spalla segue tutte le figure stereotipate (..la sfigata, il ragazzo col padre alcolizzato, il gruppo di amiche bulimiche) senza tregua, di spalle, con l’uso di interminabili piani-sequenza e silenzi-dialoghi quasi insostenibili (..un chiaro esempio è la battuta finale con la quale si chiude brutalmente il film).
La sonorità della pellicola (..che non ha una vera e propria colonna sonora) è l’effetto libero del contesto narrativo. Le sinfonie di Beethoven emergono come fossero i pensieri dei protagonisti tradotti in note (..soprattutto di uno dei carnefici, appassionato di musica: è come se i toni angoscianti della “Sonata al Chiaro di Luna” fossero il suo motivetto, la prefigurazione della tragedia che sta per compiersi). Elephant
I due giovani assassini, non hanno nessun trattamento speciale (..siamo a conoscenza solo dei loro interessi: musica, videogames, armi). Sono freddi, come la macchina da presa che guarda tutti indistintamente..
..come l’occhio impassibile di chi finge di non vedere un elefante dentro una stanza.

E poi
..il finale.
“Ambarabà ciccì coccò..”

 

Voto: 84%

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– Finale
– Piani-sequenza
– Beethoven
– Steadycam

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– La “banalità” del disagio giovanile
– Lo stupore suscitato dai tecnicismi cinematografici (..steadycam, piani-sequenza, ecc..) potrebbe allontanare il coinvolgimento concettuale ed una probabile identificazione dello spettatore

Sonia Colavita|

 


Noah

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Eccoli, ancora una volta.
Schiere di “No”, in marcia.

Ho POCO a cuore l’opera e MOLTO il Regista.
Ma ENORMEMENTE a cuore l’equivoco insanabile tra Critica e criticare.

O si ha il coraggio e la capacità di affermare che un film sul Diluvio Universale non è realizzabile
(/non è realizzabile in maniera convincente)..
..oppure, se lo si ritiene possibile, si DEVE spiegare, punto per punto, in che modo era possibile Fare Meglio.
Il resto, tutto il resto, è capriccio linguistico, idealismo comatoso, brusio di fondo.

Nella sfera del linguaggio letterario [origine, mezzo e approdo del Critico] tutto sembra lecito.
Quindi ipotizzare la possibilità che un film contenga tutti gli estremi ma che risulti al contempo equilibrato.
Quindi dire di una stessa opera [leggasi: The Fountain] che ha “troppo” e “troppo poco”.
Quindi la Densità chiamata Caos (e viceversa), l’Intensità detta Lentezza (e viceversa), l’Ambizioso definito Pretenzioso (e viceversa)..a seconda delle esigenze.
Cumuli di parole a erigere un muro insormontabile di distanza dall’assunzione di responsabilità rispetto alla natura autenticamente violenta (perché specifica, particolare, concreta) delle Scelte [origine, mezzo e approdo di ogni Autore].

Nel realizzare DEVO scegliere.
E se scelgo, limito..tolgo.
E devo togliere sempre infinitamente più di quanto posso accogliere.
E di quel poco (eppure non-poco) che accolgo devo considerare le reciproche relazioni.
Un esempio specifico:
vedendo I Vigilanti in Noah è difficile non provare, nell’immediato, un senso di stupore ambivalente.
Poi, mentre lo sguardo si abitua [sarebbe più giusto dire che si deabitua alla loro non-presenza], ci si dovrebbe chiedere, banalmente, “Perché!?”.
Perché ha SCELTO quei Giganti di pietra?
Allora torna utile l’analisi di partenza. Se un film sul Diluvio è possibile, e si desidera realizzarlo, non si può non considerare le componenti essenziali di quella narrazione. Tra queste, la costruzione dell’arca e il problema della sua rappresentazione.
I gruppi di soluzioni disponibili non sembrano molti:
-Farla costruire interamente a Noè e alla sua famiglia
-Far intervenire una comunità più ampia di persone
-Introdurre una componente sovrannaturale
Ogni soluzione con i suoi limiti e le sue potenzialità espressive.

Probabilmente, la Scelta fatta da Aronofsky si inquadra all’interno di una SovraScelta Drammatizzante (la lotta con i discendenti di Caino, i conflitti famigliari, i turbamenti interiori) nei limiti di un soggetto che, in sé, parrebbe contenere un unico, nonché prevedibile, evento tensivo: il Diluvio, appunto.

In generale, comunque, non si può fingere di aver assistito a poco o a nulla!
Aronofsky ci offre un Noè perfettamente coerente con la narrazione biblica eppure profondamente rinnovato da una caratterizzazione inattesa, ma incredibilmente verosimile..
..reincarnando le ragioni narrative in una Domanda essenziale: l’Umanità merita di essere salvata?

Ciò che avrei cambiato di questo film è situato quasi interamente nei primi e negli ultimi minuti.
Nei primi bastava inserire solo la premonizione, senza troppe dispersioni (ma ripensando completamente il risultato visivo del serpente).  Gli ultimi (con la loro carica estrema di “luminosismi”) non dovevano proprio esserci.
Il MIO Noah parte dalla limpida presa di coscienza e termina con il dubbio lancinante (quel coltello sollevato al di sopra delle due nenonate gemelle).

Non faccio alcuna fatica ad ammettere che esistano film migliori (Benvenuti nell’Ovvio).
Neppure a immaginare una maggior cura realizzativa in quest’opera.
Faccio senz’altro qualche fatica in più nel sospettare che sia possibile un film complessivamente migliore sul Diluvio Universale.
Ma attendo, con fiducia, chiunque sarà in grado di proporre, oltre a un “No”, un “Ecco come”.

Risultato: 80%

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Come prendere una storia che non ha più nulla da dire e insegnarle a parlare un nuovo linguaggio


Primi e ultimi minuti, tout court
Caratterizzazione statica e forzata della maggior parte dei personaggi (su tutti, i figli di Noè)

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